Peter Pan Syndrome – …A Toys Orchestra

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È il suono della sirena di un allarme l’unico rumore che si sente fuori da casa mia nelle fredde notti d’inverno, in quelle gelide notti d’inverno che  nessuno, nemmeno i cani randagi con i loro passi azzoppati, ha voglia di sfidare.
Tremo sotto coperte e lenzuola di flanella, stringendo gli occhi fino a farmi male.
Non voglio vedere cosa c’è a luce accesa, non voglio scoprire quali fotografie sono appese alle pareti di questa stanza.
L’allarme urla a tempo, costante, lento, mediocre.
Come se ci fosse qualcuno a suonarlo a mo’ di uno strumento musicale.
Mi rigiro, porto le mani alle orecchie per non sentire.
Non voglio sentire il freddo, non voglio sentire le foglie scuotersi per un alito di tramontana. Non voglio.
I piedi sono accartocciati uno vicino all’altro, le ginocchia all’altezza del bacino, prima a destra, poi girandosi a sinistra.
Basta, smettila.
Dovrei alzarmi ma non so farlo. Dovrei lasciare questo cazzo di letto ma non ci riesco.
E allora potrei urlare, urlare più forte dell’allarme, cercare dentro i miei polmoni questa sensazione di impotenza e gettarla via. E costringere quel dannato allarme a smettere di fare così.
Ma non posso, non ho voce. Non esce niente se non aria ferma e piena di anidride carbonica da eliminare.
E l’allarme sembra smettere ma poi riprende, sembra riposarsi e poi si accende. E tutti fuggono, lo so.
Ma il mio letto è immobile e non si muove.
E allora potrei accettare tutto e dormire.
E lasciare che il suono dell’allarme diventi nenia, che il freddo mi anestetizzi l’anima, che il buio e la solitudine mi cullino e mi accarezzino fino a lasciarmi scivolare nel non essere.
Ma non ci riesco, neanche stavolta.
Era il giovedì prima della resurrezione.
Il buio squarciato dai fanali di un’auto in corsa.
Avevi appeso agli specchi i tuoi occhi e i tuoi tentativi di sorriso e le tue certezze.
“Hai più pensato alle mie parole nella notte?”
mi avevi detto qualche settimana prima di lasciarmi.
“Hai passato intere mattine a rincorrere tua madre, bruciavi le albe urlandomi a squarciagola la tua verità e accusandomi di non comprenderla.
Non avevo abbastanza dolore per piangere il tuo, per guardarti dentro e non uccidere quello che ti era rimasto.
Hai più pensato alle mie parole, nella notte?
Quando ti dicevo di respirare, quando ti dicevo di accettare i tuoi limiti e i miei confini?”

Non ci ho mai pensato abbastanza, Leila, anche se ti dicevo il contrario.

E non perché non volessi farlo ma perché non ne vedevo il motivo, miope a tal punto da non accorgermi dell’ovvio.
Miope al punto di esser l’unico a non capire che ti eri allontanata da me prima ancora che avvicinata a qualcun altro, migliore di me si intende. Il problema è che io sono sempre rimasto ancorato alle parole, Leila. A quelle parole che tu pronunciavi in un modo e alle quali io, man mano che la
nostra storia andava avanti, davo un senso via via diverso a seconda dei miei stati d’animo. Ho sempre preferito sentire che vedere, perché le cose che vedi non possono essere diverse da come sono, mentre quelle che senti sì. E non ho voluto vedere e ho preferito sentire ciò che volevo. Di una cosa sono ancora certo ed è che tu quelle parole, quelle che avresti dovuto dirmi per abbandonarmi al mio destino senza
che io potessi avere qualche dubbio, non le hai mai dette. Mi hai invece detto di amarmi, di essere felice e di volermi bene. Mi ricordo bene della prima volta in cui mi hai detto di essere preoccupata per la piega che le cose tra di noi stavano prendendo, è vero. Ma non più di quello, ne sono certo. E finché non me lo dirai io continuerò a pensare che non è finita, perché non devono essere i miei amici o i tuoi a dirlo, né mia madre o tua sorella o tuo fratello.

Devi dirmelo tu, che non ci sono più possibilità per noi, devo sentirlo da te, dalle tue labbra, dalla tua bocca.

E finché non lo farai, Leila, io resterò in un angolo ad aspettare, perché, ormai è evidente, in questa storia l’unica che può mettere la parola fine sei tu.

 

IL BRANO

nel 2004 un gruppo di ragazzi di Afragola pubblica il proprio disco di esordio, uno di quei dischi pop che se li avessero fatti ad Agropoltown in Inghilterra ne avremmmo parlato per un decennio.
E infatti, dodici anni dopo, io ne parlo ancora.