Paracetamol – The Blast

                                               Foto di Sonia Golemme

Comincia così, come cominciano le cose.
Le mattine sempre uguali alle mattine di sempre, gli alberi coi rami rotti e le macchine assonnate.
La faccia allo specchio, l’acqua che scorre e le mie mani che la sfiorano per sentire se è calda. Non ancora e non abbastanza.
Un’altra notte sospesa su una fune, cercando movimenti meno bruschi per non cadere.
Ancora.
Non credo agli occhi che ho davanti, alle loro bugie, al loro candore macchiato di caffè.
Non credo al viso che ho davanti, ai capelli troppo lunghi e arruffati, alla barba rasata di fresco.
Mi aggiro da solo in questa casa grande e vuota, piena di mobili, di immagini ai muri e di muri.
Piena soprattutto di muri, anche quando riesco a scappare da qui.
Chi è ancora nello specchio?
Dopo aver respirato il tuo respiro ed essermi scaldato con la tua pelle e non sapere se, chiudendo gli
occhi, sono i tuoi quelli che vedo.
O i miei.
O quelli di qualcuno che non conosco, che non ho mai visto, che non mi è mai appartenuto.
Mi accarezzo il viso, segnato da rughe che scendono verso il mento, fino alle labbra, ruvide e prive di un colore definito.
Chissà se è quello che hai provato anche tu.
Sono stanco, ho le spalle pesanti e mal di pancia.
La testa rimbomba al ritmo del mio respiro.
Ne rallento l’andare, ora meno affannato e più regolare, poi più profondo, ancora di più.
Poi si spezza, riprende come un violino a cui è saltata una corda.
Perché c’è quel viso sul mio specchio?
L’immagine mi ricorda una fotografia ingiallita, un sentiero pieno di foglie cadute, la marea che si ritira.
Mi giro di scatto sulla mia sinistra, verso la finestra, guardo fuori.
I sensi si irrigidiscono, porto le mani sulle tempie per fermare la testa. Gira tutto più veloce di quanto possa
sopportare, troppo veloce.
Le case, le auto in sosta, gli alberi e i loro rami.
Le nuvole e le gocce di pioggia.
Le pozzanghere hanno perso colore a furia di venir calpestate.
L’asfalto si sbriciola a ogni passaggio di pneumatico, sempre di più, sempre più macchine e sempre più
fumo di scarico.
E intanto la mia città si uccide.
La mia città urla, si dibatte impotente davanti a stretti cunicoli senza uscita.
La mia città si accende di false speranze, si arrampica su corde lise e cammina
su selciati infuocati.
La mia città si perde in mezzo a pagine bianche che nessuno accetterà mai di scrivere, agli sguardi di
gente abbandonata a se stessa.
La mia città si inchina, la mia città si traveste da donna d’alto lignaggio quando è solo una grossa puttana.
La mia città ride, vezzeggia, nasconde i fianchi larghi per la troppa ingordigia, ancheggia nelle gonne
troppo strette.
La mia città piange quando un suo figlio se ne va e lo deride appena lo vede lontano.
La mia città si specchia nelle sue manie di grandezza, nelle sue giornate di sole e nella pioggia.
Nella pioggia che ora.
In questa maledetta pioggia che ogni volta che
esco da qui corrode la mia pelle nuda, il mio passo nudo, il mio respiro nudo.
Basta.
IO me ne vado.

 

LA CANZONE

Il primo disco dei The Blast, la band di Antonio Serra, una canzone che parla di morte e di dolore.

La stessa terra, lo stesso cielo, la stessa anima, le stesse battaglie.