Hurt – Johnny Cash

Ho perso l'entropiaFoto di Sonia Golemme

Giocavo con le ombre, quando ero bambino. Non con la mia, con quelle degli altri. Le rincorrevo e cercavo di pestarle, di saltarci sopra oppure di scansarle girandoci attorno. Giocavo con le ombre quando uscivo con i miei genitori, per le strade di paese, nelle mattine d’estate, quando il sole alto e forte attraversava i rami degli alberi trasformando foglie e persone in mille piccole occasioni di divertimento. Erano il mio parco dei divertimenti, quelle strade e quelle ombre, anche perché prima di poterne vedere uno vero e proprio la mia infanzia era già finita e la mia adolescenza mi teneva lontano dai giochi dei bambini. Anche perché non mi piacevano quei posti, in fondo. Musichette e urla, rumori impazziti di macchine e ingranaggi, bambini che giocano a fare gli adulti, fingendo distacco di fronte al ripido declivio delle montagne russe o ai fantasmi che compaiono all’improvviso da dietro una porta. Non c’era motivo di andarci se non per farsi prendere in giro dagli altri. Mal sopportavo il profumo delle mele caramellate, dello zucchero filato e dei dolciumi di plastica che potevi acquistare ogni dieci passi e non ero capace di sparare coi fucili alle scatole premio ripiene di ghisa o lanciare palline da tennis verso barattoli di latta.

Ora sono qui, a guardare le luci forti e intermittenti, i colori falsi e irregolari, i disegni sui camion fatti con vernice scadente e mani tremanti, le attrazioni e l’umanità che ci si perde.

Avevo conosciuta Layla, ironia di una sorte beffarda, una sera di un giorno di riposo in cui avevo deciso di non lasciarmi ubriacare ulteriormente dal freddo umido dei canali ed ero andato nel locale in cui avevo lavorato fino a qualche mese prima, prima di trovare un impiego più regolare. Lavoravo come commesso in uno dei negozi di cibo e bevande di una di quelle catene di grandi magazzini, quelle in cui ogni impiegato ha una divisa di pessimo gusto e una targhetta col proprio nome in bella vista. Lei in quel locale ci lavorava da poco, qualche settimana credo, principalmente occupandosi del servizio ai tavoli, una di quelle cose che a me, vista la poca pratica della lingua che avevo all’inizio, era stata risparmiata, condannandomi per il resto della mia vita in quel pub alla spillatura delle birre.

Non ero dell’umore adatto, avevo appena discusso al telefono con mia madre, e poi rotto la lavatrice per colpa di una moneta da 50 pence dimenticata nei jeans, e bruciato la macchinetta del caffè che mi ero portato da casa, sempre con mia madre al telefono.

Troppo tempo passato a giustificarmi, a chiedere scusa e mandare al diavolo, nessuna voglia di continuare a parlare da solo con le mie paranoie.

Layla diceva che l’avevo conosciuta quella sera, però io non lo ricordo. La testa alta e bruna e lo sguardo aperto, azzurro, i modi decisi di chi non ha paura. Ma non me la ricordo, quella sera. E non ricordo bene nemmeno come è stato che ha cominciato a interessarsi a me, e io a lei.

Lavorava in quel pub in attesa di un posto migliore, in attesa di mettere a frutto gli anni dell’università.

Poi è passato del tempo, qualche mese, forse un paio di stagioni.

È passato il tempo delle feste e dei regali, e i colori degli alberi volgono di nuovo al verde più intenso. Ed è diventato normale trovarci dopo ogni turno di lavoro, a parlare, bere, sfiorarci le mani e le labbra. Sempre a testa alta lei, sempre guardando in basso io. Ma con la testa che smette di girare, di correre e finalmente si ferma. Guadagno il giusto che può permettersi uno con un lavoro come il mio, il giusto per un modesto monolocale in affitto, per l’abbonamento ai mezzi, per qualche serata fuori. E ogni tanto per qualche piccolo regalo. Una vita normale, non diversa da quella che tempo fa avrei considerato mediocre.

Avevo grandi speranze e il bisogno di riscattarmi dalle pochezze della mia giovinezza. E non riuscivo ad averne mai abbastanza, così come mai abbastanza ero per la gente.

Mai abbastanza bello, mai abbastanza simpatico, mai abbastanza dolce o deciso, mai sincero, mai onesto e mai stronzo fino in fondo da fregarmene veramente. Sono stato il ragazzo perfettino e studioso, quello ribelle, quello apatico e quello intellettuale. Sono stato superficiale e impegnato, il sarcastico e l’idiota di turno, fighetto amico di fighetti e alternativo a qualcosa che non è mai esistito.

Non sono mai andato bene a nessuno e nemmeno a me stesso.

Quando mi chiese perché passassi tutto questo tempo a fissare il soffitto le risposi che era l’unica cosa che ho sempre fatto senza paura di poter sbagliare, perché il soffitto è lì, immobile, e non mi chiede nulla se non di essere guardato.

Mi abbracciò.

Bevevo più di quanto potessi reggere in quei giorni, mi sentivo lieve e galleggiante.

Era un buon modo per cacciare via i cattivi pensieri e non pensare alla conseguenza delle azioni e probabilmente valeva anche per lei, che avrebbe potuto avere di più dalla vita e invece chiedeva solo di non averne di meno.

E il parco ora sembra fermo, una fotografia sfocata con le luci della ruota panoramica che disegnano scie statiche, con i gesti fermi, le palline da tennis sospese tra barattoli in declino, le risate appese e le bocche dischiuse su nuvole di zucchero colorato. E di nuovo si anima e i colori diventano forti, fortissimi. Il bianco mi acceca, il giallo mi disturba, il blu mi angoscia, il rosso. Il rosso delle fiamme che si alzano lentamente attorno alla casa degli specchi, alle montagne russe, agli animali in gabbia e alle automobiline elettriche.

Il treno, che ci riportava a casa da questa spiaggia sulla Manica sapendo bene che sarebbe stata l’ultima notte, era rimasto silenzioso. I sedili vuoti eccetto i nostri e quelli di fronte riempiti dalle nostre cose. Un plaid e quello che rimaneva di una bottiglia di vino e i suoi due bicchieri, un lettore cd su cui avevo lasciato che Jeff Buckley compatisse le nostre anime e da lassù ci condannasse a lacrime mai emerse.

“Cosa provi per me?”

“Ti voglio bene, lo sai”

Hai appoggiato la testa sulla mia spalla, ti sei abbandonata sul mio braccio.

“Bene non è abbastanza”

Neanche stavolta, e neanche stavolta fa male.  O forse è proprio per il troppo male che anche questa frase mi scivola via sfiorando il palmo umido della mia mano che si preme su occhi stanchi e senza forza.

Siamo scesi dal treno, arrivati sotto casa mia e salutati come se fosse tutto normale e rinviato.

Ho il plaid a casa, i bicchieri e la bottiglia li ho gettati via qualche giorno fa.

I colori mi esplodono dentro, la musica e il fragore della gente mi travolge, il profumo di pop corn caldi mi invade i polmoni. Cerco l’uscita con lo sguardo, ma il treno non partirà prima di un’ora ancora e mi attardo qui. Mi alzo e la confusione, la frenesia, l’inutile cercarsi gli uni con gli altri mi travolge: è qui che l’errore si ripete ancora, immutabile e inspiegabilmente coerente con tutto quello che ho vissuto. Anche se non sono come gli altri e non posso assomigliarvi, continuo a rincorrerli. Continuo a non accettare il fatto di essere unico e l’unico che può accettarsi, di non potermi specchiare negli altri perché non esisto negli altri. Perché sono semplicemente uguale a me, e non diverso da loro.

 

IL BRANO

Si è dei Nine Inch Nails, non iniziamo a fare i precisini. Ma il buon Trent avrebbe due dita di una mano per farne una versione tanto emozionante. O forse no, ma importa poco. E a voler dire proprio tutto, se vi dovesse capitare di ascoltarla cantata da Paolo Benvegnù potrebbe anche scendervi giù più di una lacrima.