
a cura di Francesca Ciardullo
Qualche settimana fa a Cosenza, al “Commenda Metal Commando”, ho incontrato per caso Antonio Turano, il rapper conosciuto dai più come DonGocò. È bastato un mio riferimento a un vecchio disco (“Bidimu ‘cchi n’escia” dei Kalibri Kalabri) per far partire un viaggio nei ricordi. Abbiamo evocato i tempi in cui lui e gli altri della scena rap locale facevano freestyle al memorial di DJ Marcio, a via Popilia. Un’altra epoca.
“Ascolta il mio disco SudConscio!” : non me l’ha chiesto con la presunzione di chi si aspetta di piacere, ma con la voglia di condividere con una “vecchia fan” qualcosa di sincero. Io, ovviamente, l’ho fatto. E se l’aspettativa era alta, l’ascolto è stato “altissimo”.
La copertina vede DonGocò in maglietta bianca, seduto ad un tavolo anch’esso bianco, in uno spazio neutro e quasi clinico che, insieme alla scritta “SudConscio”, evoca l’immaginario dell’analisi psichiatrica come di una stanza in cui mettersi a nudo ad osservare i propri pensieri.
Un percorso interiore terapeutico: questo l’elemento che attraversa l’intero disco. Il gioco fonetico del titolo rimanda infatti a un’origine geografica (penso a pezzi come “0984”) quanto ad un’origine emotiva.
Le collaborazioni nel disco sono tante e belle (penso agli incastri in dialetto di Brigante in “Aru stand”, ad Aku e Kento, ai beat di Franiko Calavera, a Mastrofabbro, a Suono B, a DJ Kerò), ma “SudConscio” è fatto soprattutto, e prima di tutto, di parole. Sembra essere stato scritto per essere letto più che ascoltato, non sembra un disco rap, almeno non del tutto. Alcuni pezzi sono vere e proprie prose (“Il vuoto”, “Saper esitare”, “Patuto”, “L’aquila”); altri ricordano certi cantautori italiani molto “intensi” (“Gioco” per esempio ricorda Battiato). Sudconscio chiede due, tre, quattro ascolti lenti e una certa disponibilità a farsi toccare.
In “GuateMaya” è reso esplicito il senso potente del disco: la scrittura (e l’arte in generale) è un mezzo per confrontarsi con se stessi, per scendere negli strati più scomodi del proprio vissuto e farne qualcosa di vivo. Quando DonGocò scrive: “E chi ci scende nel mistero della propria giungla, dove ha buttato tutto ciò che non voleva vedere più, e tutto quello popola la propria giungla poi, e può essere molto spaventoso, ma se a un certo punto vuoi o devi scendere dall’albero, devi essere pronto ad incontrarlo” ci sta offrendo un’immagine del suo approccio. La “giungla” è l’inconscio, il luogo dove si nascondono memorie, emozioni, traumi non elaborati, parti di sé. Scendere dall’albero è un gesto coraggioso, non privo di dolore, ma necessario per elevarsi. Un’elevazione al contrario: non verso l’alto, ma verso il profondo. Per scavare e poi trasformare: il trauma in parola, in suono, in bellezza. E chi, ascoltando “SudConscio”, non ha riconosciuto nella giungla di DonGocò pezzi della propria?
Anche “MHDDC” si muove in questa direzione: è un’elaborazione personale profonda che attraversa lo sguardo giudicante altrui (“Mi hanno dato del coglione”) e lo ribalta in un inno alla propria autenticità come valore.
“Patuto” invece ci riporta la stessa vibrazione di “Questa è l’acqua” di David Foster Wallace. Lo ricorda in quell’invito sotteso a posare lo sguardo altrove, a spostare l’attenzione oltre il proprio ego. DonGocò dice: “Anche se si è fatto tardi e dovrei fare la spesa, ci sono persone e fatti ai quali è giusto pensare”. È quello che dice Wallace con la sua metafora dell’acqua: che la realtà più importante è spesso invisibile, perché è quella in cui siamo immersi sempre. Spezzare la routine in cui siamo immersi e fermarsi a pensare agli altri, anche solo per un attimo, consapevolmente, è scegliere di vedere.
SudConscio dura poco più di un’ora, che per un disco è tanto di questi tempi, ma resta dentro molto più a lungo. Ti spinge a guardarti, senza chiuderti: ti porta dentro per riportarti fuori. Più lucido, più leggero, magari anche un po’ più vero. È qualcosa che assomiglia molto ad una seduta di terapia. E proprio per questo funziona.
In “Gioco” DonGocò dice: “Mi metto un po’ a giocare con la musica, come sapessi poi come si fa”. Noi speriamo, per lui e per noi, che continui a giocarci ancora e ancora, perché davvero, crediamo sappia bene come si fa.

di +o- POP