Sguardi di nicchia in una nuvola di fumo

© Muhammed Salah

A cura di: Fiorella Todisco

 

[…]

Se avessi potuto scegliere tra lo stare in quel locale o subire qualche tortura in una capanna dell’Etiopia, quasi sicuramente avrei scelto la seconda.

Mentre la musica veniva pompata a palla nelle casse e le mie amiche si divertivano scolandosi il terzo tris di vodka, io me ne ne stavo poggiata dietro ad una colonna, sorseggiando il mio fedele rum e cola.
Un tizio dal dubbio gusto vestiario, dopo avermi fissato le tette per una buona mezz’ora, si era avvicinato per sapere se fossi single ed io, con estrema serietà, gli avevo risposto di no.
“Impegnata da circa sette anni e lui sta per arrivare, quindi se non ti dispiace..”
Mentii, schivando un suo tentativo di approccio fisico, per poi dirigermi verso l’uscita a prendere una boccata d’aria.

– Coglione – pensai, rollandomi una sigaretta che di lì a poco mi avrebbe fornito ossigeno non propriamente nel senso tecnico della parola.

Iniziai a fumare con intervalli cadensati, godendomi ogni sacrosanto tiro, mentre guardavo incuriosita la gente intorno a me: un unto e viscido uomo di più o meno trent’anni, palesemente a ruota dal 1990, aveva stretto tra le sue grinfie una bionda spilungona che lo ascoltava con uno sguardo perso, lo stesso che, probabilmente, facevo io al professore di economia politica durante le lezioni. Poco più in là un gruppo di ragazze, vestite più o meno come delle vestiali dionisiache, brindava a non so cosa barcollando su tacchi 12. Sulla destra una coppia di fidanzati si baciava, incurante del mondo intorno a loro.
Ogni spazio era riempito da qualcuno che scandiva a proprio modo il suo tempo.
Accanto a me, vicino alla porta di ingresso del locale, sentivo una ragazza parlare con un tipo: “Se ci pensi è stato meglio esserci lasciati.. Ora che ci siamo ritrovati non credi che le cose vadano meglio?” e lui aveva risposto che la amava, dopo aver sostenuto di essere d’accordo con lei. Mi girai verso di loro per guardarli, per dare un volto a quel discorso intriso di belle parole.
Lui alto, con pochi capelli, spalle larghe ed un viso dolcissimo, lei bassa, formosa, con uno sguardo penetrante. Stranamente non provai repulsione alcuna per quel loro momento di amore, anzi, quasi li invidiai.

Erano passati quattro anni da quando avevo lasciato A., eppure continuavo a provare quella stretta allo stomaco, quel senso di vuoto, quella voglia di condivisione che fino a quel momento mi riconducevano sempre ed ancora a lui.
Provavo un perenne senso di frustrazione, mascherata da un menefreghismo nei confronti del prossimo che a molti faceva spavento. Soprattutto a mia nonna, la quale, una bella domenica di merda, era entrata in camera mia confessando che fosse assolutamente contraria al mio atteggiamento ostile verso la qualunque e che avrei dovuto a tutti costi tentare di dare una possibilità al nipote del suo amico Lello.

Il punto é che a me non fregava un cazzo di niente.

Non volevo dare opportunità a nessuno, soprattutto a me stessa: vivevo imponendomi inconsciamente la solitudine, perché era l’unico modo per sentire ancora vicino A.
Il ragazzo dal viso dolcissimo gli assomigliava molto e mi preoccupai seriamente delle mie condizioni psichiche quando iniziò ad affiorare in me, timidamente, della gelosia nei suoi confronti mentre lo vedevo abbracciare la sua fidanzata.

Eppure la vita, proprio nel momento in cui il volo pindarico verso l’oblio era partito puntuale, mi offrì un’opportunità di salvezza. Notai, appoggiato ad un muro un po’ più avanti, un ragazzo che stava bevendo una birra in totale solitudine, esattamente come me.

Pensavo, nel mentre, alle giornate  a ridere con A., a litigare sulla filosofia kantiana, a mangiare pizza fino a sentirci male, a metterci il pigiama a vicenda quando tornavamo entrambi ubriachi da una serata, a baciarci sul divano sotto al suo plaid rosso e verde, a guardare il mare al tramonto insieme per calmarci dopo un litigio, a telefonargli in pausa studio e chiedergli se avesse mangiato, ad aiutarlo a scegliere la camicia per il compleanno di 50 anni dello zio; pensavo ai cinque meravigliosi anni pieni di difficoltà adolescenziali che io, troppo piccola per capire e troppo immatura per crederci fino alla fine, avevo stroncato in una maniera barbara, ammazzando entrambi, lui con una morte veloce e me stessa con una lenta e dolorosa.

Pensavo a tutto questo con le lacrime agli occhi e la sigaretta tra le dita consumata fino al filtro. Lo feci, evidentemente, senza rendermi conto di star fissando quel ragazzo poggiato al muro un po’ più in là. Lui, credendo che fossi interessata, mi venne incontro, lentamente, continuando a sorseggiare la sua birra. Era molto bello, riccio, occhi chiari, con una maglietta bianca ed un jeans.
“Non si fissano le persone, è indice di pazzia” disse, mettendosi di fianco a me.
“Scusami, hai ragione, in realtà ero solo in una gigantesca pausa per tentare di estraniarmi da questa merda”, risposi, stropicciandomi il naso che colava.
“Ma scherzi? È così bello calarsi in questi momenti per analizzare un po’ la gente. Vieni qua, facciamoci un giro in mezzo alla folla, ti faccio fare due risate”.
“Sei sicuro che vuoi camminare in compagnia di una pazza?”
“A dire la verità no”
. Sorrise e mi trascinò tra la gente insieme a lui.

Il caso quella sera mi aveva teso una mano ed io la afferrai con tutte le forze che avevo.

 

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