A cura di Giuseppe Visco
“Nìvuru“, nero in siciliano, è il titolo del nuovo disco di Alessio Bondì.
L’album, prodotto da Fabio Rizzo, è uscito il 2 Novembre 2018 per 800A Records.
“Nivuru” a dispetto del nome è un disco luminoso, elegante e ricco di sfumature e colori. Racconta di viaggi e scoperte all’interno di mondi diversi con uno sguardo sempre rivolto alla Sicilia, ai suoi paesaggi e alla sua anima.
Incuriositi da questo album, abbiamo pensato di rivolgere qualche domanda ad Alessio Bondì.
La prima domanda è la seguente: se non avessi fatto il cantante, ora che saresti?
Ho studiato Teatro e Cinema all’Università e poi recitazione successivamente. Verosimilmente se non avessi virato verso la musica avrei continuato a fare l’attore.
Tutti i tuoi testi sono in dialetto palermitano, come consideri questa tua scelta di essere fedele al tuo dialetto? Pensi ti abbia precluso qualche possibilità o meno?
Non provo fedeltà per la mia lingua, anzi proprio il tradimento mi ha portato poi ad amarla. Ho scritto per anni in inglese, poi per un periodo non ho più parlato siciliano e ho provato ad annullare ogni regionalismo dalla lingua che parlavo studiando dizione. È stato in quel momento che è tornata la risacca, con più forza di prima. Ho aperto il rubinetto ed è uscito il mare.
Non credo che usare il dialetto precluda delle possibilità. Scrivere in palermitano ha scoperchiato una visione del mondo che mi soddisfa, ha riempito la mia vita di affetti, di lavoro, di poesia e di qualche riconoscimento. Mi dà una casa verso cui volgermi. Mi dà la sensazione di fare qualcosa di nuovo e di antichissimo allo stesso tempo, questo è impagabile.
In un panorama musicale come quello italiano ove a farla da padroni ci sono i vari Calcutta, Coez, Lo Stato Sociale e così via, dove ti collochi?
Questi artisti che citi hanno tracciato la nuova linea del main stream italiano con un tratto così forte che adesso va di moda. Io faccio musica in maniera molto diversa da loro, che credo si collochi più sul solco tracciato da Pino Daniele o Vinicio Capossela, due mostri sacri che non scomoderei parlando di me se non per il fatto che anche loro hanno immerso le mani nei loro regionalismi, in un’Italia popolare e ancestrale ma per esprimere ansie contemporanee.
Quale è la tua idea di musica “indie”? Ti ritieni un cantautore, un cantore o un menestrello?
La parola Indie mi sembra un buon punto di inizio ma non deve essere una giustificazione per fare musica accomegghiè (forse la migliore traduzione per questo in italiano sarebbe “a cazzo di cane”). Per quanto mi riguarda mi ritengo uno che ha trovato il suo elemento nella sperimentazione linguistica e musicale.
Quale canzone avresti voluto scrivere tu?
Sad-eyed lady of the Lowlands di Bob Dylan.
Il tuo artista preferito?
Carlo Ragone, attore teatrale dal talento illimitato. È stato mio insegnante di recitazione per qualche anno.
Cosa ascolti nel tuo tempo libero?
Tiganà Santana.
Se non fossi stato Alessio Bondì chi saresti voluto essere?
Il grande Lebowski.
C’è un libro che hai iniziato a leggere e non hai mai finito?
Non si muore tutte le mattine di Vinicio Capossela. Forse ci ritornerò su, non l’avrà vinta.
Quale delle tue canzoni ti descrive meglio e perché?
Le canzoni cristallizano in maniera perfetta alcuni momenti della mia vita. Quindi un po’ tutte mi hanno descritto in un determinato istante. Forse Cafè può essere molto rappresentativa degli ultimi anni, di alcuni momenti di solitudine iniziale e furia successiva.
Ultimamente hai fatto una data a Berlino, è stata solo la prima di un tour europeo o è stata una mosca bianca? Pensi che i testi delle tue canzoni possano essere un limite per un pubblico non italiano?
Berlino è stato l’ultima di quattro date Europee fatte a Parigi, Bruxelles e Dublino, in cui aprivo i concerti di Max Gazzè per il ventennio de La Favola di Adamo ed Eva. È stata un’esperienza bellissima, molto faticosa ma appagante. Il 16 gennaio 2019 suonerò di nuovo a Berlino all’Auster-club questa volta per promuovere Nivuru con la mia band. Due giorni dopo sarò all’Eurosnic Festival, il più grande showcase festivl d’Europa. Negli ultimi due anni credo di aver suonato più all’estero che in Italia, responsabile anche l’uscita del mio primo disco in 10 paesi tra Europa e Brasile nel novembre del 2017, dopo aver chiuso il suo percorso in Italia (era uscito lì nel 2015). Scrivere in una lingua che in pochi conoscono può essere d’intralcio solo se le canzoni fanno leva esclusivamente sul testo. Se c’è della musica coinvolgente sotto, un’interpretazione, una voglia di comunicare, allora le persone possono poggiarsi su altri livelli di esperienza. Io stesso ascolto musica che proviene da ogni parte del mondo ma non parlo tutte quelle lingue e mi piace provare a immaginare tutto quello che non comprendo.
“Si fussi fimmina” chi vorresti essere?
Janis Joplin mentre canta Little girl blue alla trasmissione di Tom Jones nel 1969, solo quei 3 minuti di fragilità e orgoglio per sempre.
All’interno di questo mondo rivolto alla digitalizzazione ove ti collochi?
Sebbene non ami l’avanzare incontrollato della tecnologia, imparo ogni giorno ad usarla a mio favore e, di tanto in tanto, anche a spegnere tutto per ascoltarmi un po’.
Quale è la tua idea riguardo i social network?
Da un punto di vista personale li uso meno che posso. Per quanto concerne la mia musica: sono un’ottima piattaforma per diffonderla e comunicare con le persone che la seguono.
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Emozione, rito, gioco.
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