
a cura di Sonia Golemme
Permettetemi di introdurvi a un artista che continua a esplorare i confini della musica con coraggio e sensibilità unici. Stiamo parlando di Paolo Angeli, che il 9 maggio ha pubblicato il suo quattordicesimo album da solista, LEMA.
Questo lavoro, registrato a Sitges e masterizzato a Cagliari, è una suite vibrante di oltre 46 minuti che non solo traccia nuove rotte sonore, ma evoca anche le sonorità a cui Angeli ci ha abituati nel tempo. “LEMA” (in spagnolo “motto” o “slogan”) è una sintesi diretta del suo pensiero musicale, libero da steccati di genere, che racchiude trent’anni di convivenza con la sua iconica chitarra sarda preparata. L’album è un vero e proprio autoritratto, nato in un momento di grande creatività per Angeli, reduce da un tour entusiasmante negli Stati Uniti. È un lavoro profondamente personale, catalizzato dalla separazione da un affetto importante, che diventa strumento di elaborazione e rinascita.
“LEMA” si articola in due sezioni distinte. La prima è una lunga suite che ci accompagna in un viaggio immaginario, dalla psichedelia sperimentale di “Periplo” alle influenze flamenche di “Sciumara”, fino alla complessa struttura narrativa di “Maví”, brano iconico che sintetizza le linee poetiche della carriera di Angeli. La seconda parte si sviluppa in episodi indipendenti, con un lato B che vira verso il Medio Oriente, culminando nella struggente “Nakba”, versione gallurese di “If I Must Die” di Refaat Alareer. L’album prosegue poi con le trame progressive di “Conca Entosa” e si conclude con un ritorno a casa, tra melodie sarde frammentate di “Ramadura”, per poi omaggiare un gigante del free jazz con “Sun Ra”.
È importante sottolineare che questo album è un dialogo intimo tra Angeli e la sua nuova chitarra, realizzata con la liuteria Micheluttis e Oran Guitars, senza sovraincisioni o l’ausilio di un looper. La voce, talvolta trasfigurata, talvolta di nitida freschezza, assume una funzione di guida, evocando motti di un tempo remoto. I testi, infatti, sono un intarsio di poesia popolare gallurese del ‘700 e ‘800, poesie palestinesi e versi di autori contemporanei, che acquisiscono nuovi significati nel contesto musicale attuale.
“LEMA” non è solo un album musicale; è un’esplorazione del tempo, della geografia umana e del significato del ritorno. È un’ode a un Mediterraneo autentico, che rivendica una componente post-rock e un messaggio di speranza e ottimismo in un momento storico complesso.
E ora immergiamoci ancora più a fondo nel suo universo sonoro. Mettetevi comod*
Paolo, il tuo nuovo album, Lema, uscito a maggio di quest’anno, è un’opera di grande profondità. Vorrei iniziare la nostra conversazione soffermandomi su un brano in particolare: “Nakba”. Si tratta di una versione in gallurese di “If I Must Die” di Refaat Alareer. È una scelta potente, visto il momento storico che stiamo vivendo e commovente. Puoi raccontarci come è nata l’idea di dare voce a queste parole attraverso la tua musica e il tuo strumento?
È stato un gesto spontaneo e necessario. Quando il genocidio in Palestina ha assunto le proporzioni di questi mesi, ho sentito una profonda commozione e, allo stesso tempo, impotenza. Il testo di Refaat Alareer racconta la tragedia e alimenta speranza, affidata alla fragilità di un filo e al volo di un’aquilone. Avevo già scritto la melodia di Nakba e pensavo che, nonostante la chiara influenza mediorientale, fosse un brano perfetto per una voce algida come quella di Björk. A quel punto ho pensato di coinvolgere una cantante palestinese ma non c’erano i tempi per realizzare il tutto. La stessa giornata in cui mi trovavo in studio, ho chiesto ad Elena Morando la traduzione in gallurese della poesia ed ho provato ad eseguire il tema pensando che sarebbe stata cantata in un secondo momento da una figura femminile. Il tecnico del suono Dave Bianchi ha insistito molto a mantenere questa versione, con una voce fragile, quasi sussurrata che esprime l’assenza di strumenti per interpretare questo dramma. È un gesto solidale profondamente sentito, in cui l’estetica è secondaria. Credo che sia questa semplicità a rendere Nakba emozionante, perché metto a nudo una vocalità inedita nel mio approccio.
Quali sono state le principali sfide o le maggiori soddisfazioni durante il processo di creazione e registrazione di “Lema”? C’è stato un brano in particolare che ti ha dato più filo da torcere o, al contrario, che è nato in modo particolarmente fluido?
Lema, in assoluto, è il mio album da solista che è nato con maggiore spontaneità. Ha a che fare con la rinascita. È stato realizzato in una seduta di 5 ore e con una ripresa nel giorno successivo per le parti vocali. I primi tre brani hanno un unico respiro: Periplo, Sciumara, Maví è una lunga suite dedicata a mia madre. Il brano più difficile è stato sicuramente Maví. È una dedica diretta a lei. Allo stesso tempo è una composizione che sintetizza tutte le mie anime, esprime la relazione con lo strumento, ne esplora i punti fermi e cerca di forzarli per cercare nuove rotte. È stato il più difficile perché, ascoltando le bozze della composizione, lo percepivo come un ritornare nei sentieri del mio percorso chitarristico. Trovavo complicato passare attraverso l’accettazione di trent’anni di convivenza con la chitarra, vedere materializzato il mio linguaggio e i miei fraseggi. Volevo andare oltre ma la chitarra mi riportava a casa: pochi accordi, poche linee melodiche, un sistema modulare di sviluppo per sezioni, tutto ancorato ad un mondo molto concreto che conosco troppo bene. Quindi nasceva la sfida: come inglobare le innovazioni apportate al nuovo modello della chitarra su questo flusso di conoscenza? Penso che la risultante sia uno dei brani che meglio rappresenta il mio percorso di esplorazione del mio strumento/orchestra. Forse proprio questa difficoltà mi ha portato a costruire un’architettura in cui ora mi sento a casa. All’opposto Sciumara è quello nato in modo più immediato. In qualche modo è stato così emozionante e spontaneo che rappresenta perfettamente il percorso che ha un fiume che raggiunge il mare, con la naturalezza dell’acqua dolce che sposa l’acqua salata, portando con se i detriti che raccoglie nel suo percorso. Fluido come la Sciumara, il termine con cui in gallurese si indica la foce del fiume. Quello è il brano che è nato senza filtro dal cuore alle mani.
Come si è svolto il processo di registrazione di “Lema”? Hai lavorato in solitudine o ci sono stati altri musicisti o tecnici che hanno contribuito in modo significativo al sound finale? C’è stato un luogo particolare o un’atmosfera specifica che ha influenzato le sessioni di registrazione?
È stato registrato con Dave Bianchi, una figura a me molto cara, con cui ho attraversato un percorso creativo di oltre 15 anni a Barcelona. Il suo Studio è a Sitges (Catalunya), in riva al mare. Capita raramente di registrare un disco senza abbandonare la tua routine. È stato tutto così naturale… la mattina andavamo al mercato, compravamo il pesce, sceglievamo cosa cucinare. Poi si entrava in studio e verso le tre ci cimentavamo tra i piatti: un lusso! Io adoro la relazione tra il mare, il mondo dei vecchi pescatori, il flusso di idee che si macinano quando cammini su una spiaggia in inverno. Ho potuto registrare come se lo stessi facendo del mio nido ideale. Inoltre Dave conosce benissimo la mia poetica ed è stato determinante per rendere questa processo creativo così rapido ed efficace, dando, sopratutto nella fase del mixing, un contributo estremamente importante alla riuscita del disco. Il suo apporto è stato decisivo e molto creativo. Il tocco finale è arrivato dal contributo di Marti Jane Robertson che ha masterizzato il disco e con cui collaboro da cinque anni. Sono felice di poter contare su due fuoriclasse così per realizzare i miei lavori discografici.
I titoli dei tuoi brani sono spesso evocativi e misteriosi. Per “Lema”, come hai scelto i titoli dei pezzi? Sono nati prima o dopo la composizione musicale? C’è una narrazione nascosta o sono piuttosto dei “fari” per l’interpretazione dell’ascoltatore?
Tutti i titoli sono nati a disco finito, compreso il titolo. Per me il titolo immediato era Maví. Maví, l’azzurro turchese, è il brano con cui saluto mia madre e porta con se l’intensità dell’ultimo abbraccio, dell’ultimo respiro, del suo sguardo che si chiude alla vita e che si apre su quella zona di confine, il luogo della transizione tra il mondo dei vivi e dei defunti, dove tutto è da scrivere e ridefinire. Maví traccia il rapporto con lei, il baule dei ricordi, l’immaginazione di una transizione verso la trasformazione. Ed è anticipato da un brano che è nato poco dopo, Sciumara, che in realtà rappresenta il momento in cui l’ho ritrovata, camminando sul bagnasciuga, portata dalla tramontana, con la Corsica avvolta da un manto di neve (in Gallura diciamo: ha indossato il vestito di sposa). Poi, nella seconda parte, ci sono tre zoom che potrebbero avere vita propria: Nakba, Conca Entosa e Ramadura. Quest’ultima è una dedica esplicita alla sagra di Sant’Efisio..
C’è qualcosa di “nuovo” che gli ascoltatori attenti potrebbero notare in questo album?
C`è la chitarra nuova realizzata dalla liuteria Michellutis (Casrlos e Francesco) di Cremona e elaborata da Oran Guitar (Andrea Orrù). È uno strumento straordinario e profondamente rinnovato rispetto al prototipo precedente del 2003. Conseguentemente c’è uno spirito compositivo differente che va di pari passo con la gioia di suonare un nuovo strumento ulteriormente modificato. C’è poi una maggiore consapevolezza nell’uso della voce. Per la prima volta canto e non sono solo cantore. È stato difficile affrontare questo passaggio. Ma credo che ora la vocalità sia un elemento ulteriore nell’orchestrazione, aspetto già interiorizzato in Rade e Níjar. Se poi vogliamo entrare nel dettaglio, ascoltate il prototipo che chiamo ‘omaggio a Sun Ra, espresso nei suoni acquatici che sentite in Periplo e in Sun Ra, l’arpa che compare in diversi punti e tanti altri dettagli che rendono o Lema un classico e, allo stesso tempo, un passo enorme in avanti nella consapevolezza con cui suono la mia chitarra, dando meno spazio al virtuosismo e cercando un’orchestrazione corale.
C’è un messaggio o un’emozione predominante che hai voluto trasmettere con “Lema”? Cosa speri che gli ascoltatori portino via dopo averlo ascoltato?
Transizione e gioiosa rinascita. Con Lema si narra un prima e un dopo, il periplo, la transizione tra due mondi. In Lema è estremamente presente il ricordo di un mio carissimo amico, Ale Sordi (con cui ho realizzato le grafiche dei miei dischi fin da Bucato), è un omaggio sentito anche a Raffaele Musio, tecnico con cui, nel corso di 8 anni, ho realizzato album per me fondamentali (da Sale Quanto Basta fino a 22.22 Free Radiohead), Zio Michele, Marino e Oriol il gigante, uno grande artista anarchio che è stato capace di farmi ridere a crepapelle e, allo stesso tempo, riflettere sul sistema in frantumi che stiamo vivendo, con immaginifiche pitture in bianco e nero e enormi macchine fotografiche di cartone. Il disco serve a ricollocare l’essenza di questi incontri nel mio presente, con un sorriso e un senso di fortuna per aver incrociato le loro rotte. Spero che LEMA porti a chi lo ascolta quel senso positivo di rinascita, con il sorriso e con la credenza laica che il mio rapporto con loro continui. Credo nella trasformazione, nelle transizioni verso altri luoghi. Per questa ragione Lema è un viaggio che esplode nella gioia festosa di Ramadura, avvolto dai profumi della macchia mediterranea pressata dal passaggio dei cavalli e carri a buoi per la festa di Sant’Efisio. Nel cut-up dei testi c’è un punto che amo molto: la notte sta per giungere, il giorno è all’imbrunire, quando il sole muore ad occidente. La luce ritorna improvvisamente, quando rinasce, allegro, ad Oriente. Questa poesia di Don Baignu Pes, del 1700, decontestualizzata, esprime il vuoto di valori che stiamo vivendo in questo occidente buio, oscuro, che ci vorrebbe travolgere con una paura e un’impotenza medioevale. La speranza arriva da oriente, dalla gioia della rinascita, che può esserci solo se ritroviamo la nostra umanità e abbandoniamo la confort zone del pensiero egoistico occidentale. Nelle due copertine si snoda il percorso: parto dal granito (foto di Nanni Angeli) che racconta la mia provenienza, e arrivo al magma vulcanico dell’Isola di San Pietro (Foto di Emanuela Porceddu, Manuche, che ha realizzato l’art work) che esprime la complessità del ritrovarsi in un luogo nuovo, non conosciuto, che offre una miriade di possibilità di chiavi di lettura.
C’è qualche aneddoto o curiosità legata alla genesi o alla registrazione di uno o più brani di “Lema” che ti piacerebbe raccontare?
Conca Entosa è la forza rigenerante del vento, in un luogo a me molto caro. Ci sono tornato l’inverno scorso, per cercare una fonte che si presume sia di epoca nuragica. Camminavo disperso nella macchia mediterranea, tra i residui di vecchie cave abbandonate. Li si trova un enorme villaggio nuragico mai scavato. Al lato ci sono diversi Stazzi, emblema della cultura dei pastori e contadini galluresi. Mi ritrovavo sulla vetta di Monti Canu e, in quei luoghi, vedevo scorrere la memoria della mia adolescenza. Pensavo alle lotte dei miei genitori, o a quelle di Marta e Marino contro l’estensione della base americana di Santo Stefano, contro l’esproprio delle terre e per salvaguardare la civiltà degli Stazzi. In questo luogo, scorrevano le immagini della trasformazione della campagna gallurese in proprietà privata compiuta da parte di compratori ignari, che non hanno conoscenza della storia della comunanza delle terre. In Sardegna, prima dell’editto delle chiudende (1820), vigeva un’estensione ad uso pubblico delle aree prossime alle strutture abitative. Ora, dove c’era una Jaca (cancello di legno), ci sono degli orrendi maosolei decontesualizzati, in stile Costa Smeralda, con un cartello che indica “zona sorvegliata, proprietà privata”. Conca Entosa porta con se questa storia e nella sua forza punk-progressive, decisamente positiva e ottimista, vuole essere una sberla salvifica per denunciare e resistere a questa trasformazione coloniale del nostro territorio.
La tua chitarra sarda modificata è al centro della tua espressione artistica. Potresti raccontarci come è nata l’idea di queste modifiche e quali sono state le sfide maggiori nel renderle efficaci e musicali?
È accaduto tutto per gioco nel 1995, in un contesto sperimentale di una Bologna visionaria in cui tutto era possibile. Credo che arrivati a questo punto, dopo trent’anni di eleaborazioni di prototipi, possiate trovare online tutto quello che cercate, per scrutare ogni segreto del mio strumento. I video sono il modo migliore per raccontare la mia chitarra orchestra e nel mio website www.paoloangeli.com avete la porta di accesso a questo mondo.
Le tue performance dal vivo sono spesso molto intense e coinvolgenti. Come vivi il rapporto con il pubblico e quanto spazio c’è per l’improvvisazione e la spontaneità durante i tuoi concerti?
Ogni concerto rappresenta un’esperienza a se stante. Il privilegio di essere un solista mi porta ad affrontare i live con totale libertà. La migliore opzione per conoscere la mia musica è seguire diversi concerti dal vivo. Aggiungerei che solo dopo averne visti alcuni consecutivi si ha la percezione degli enormi margini di libertà che ci sono nell’approccio ai miei live. Allo stesso tempo è inevitabile che, con la presentazione di un disco appena uscito, necessariamente il focus sia indirizzato su quel repertorio. Ma, ad esempio, nel tour di Marzo negli Stati Uniti, avevo 5 ore di musica da cui attingere, e la scaletta è stata diversa per ogni serata, con l’improvvisazione quale elemento di legame tra i brani strutturati e interna alle stesse composizioni.
Pensando al tuo concerto di due anni fa alla Spiaggia del Gombo di Pisa, dedicato alle morti nel Mediterraneo, dove presentavi Rade, mi viene in mente quanto i temi del viaggio, dell’abbandono, del ritorno a casa siano presenze costanti nella tua discografia. C’è, secondo te, un’eco o un’evoluzione di questi concetti in Lema, creando un legame tra i due album?
Ma se Rade è una porta aperta attraverso la quale si guarda il mediterraneo, Lema è la stessa porta, con lo sguardo orientato dentro quella casa scoperchiata immortalata nella copertina di Rade. È un album che sa di terra, di memoria, di stratificazione. È meno eclettico e più compatto. È lava e granito, polvere e case inabitate. È un pensiero universale che guarda ancora al mediterraneo e alle sue genti, alla storia che esprime il mare nostrum, ma questa volta da le spalle al mare, o quantomeno non ne coglie l’orizzonte aperto, per raccontare le sue bellezze e i suoi irrisolti. Non vedo alcuna frattura tra i due lavori, cambia solo l’inquadratura su una stessa fotografia. Nel mezzo abbiamo Níjar, che è uno zoom sulla cultura iberica e l’influenza arabo andalusa. Siamo sempre nell’ambito di un’avanguardia mediterranea che sta offrendo spunti inediti di riflessione.
Oltre alla musica, ci sono altre forme d’arte o discipline che influenzano il tuo modo di fare musica o la tua visione del mondo?
Sicuramente l’archeologia e la storia delle civiltà arcaiche, la cucina intesa come fonte inesauribile di creatività, il mondo dei mastri d’ascia e delle piccole barche di legno, l’impegno sociale per le battaglie perse, che alimentano la speranza per un mondo migliore.
Guardando avanti, ci sono nuove direzioni musicali che ti piacerebbe esplorare o collaborazioni che ti affascinerebbero realizzare?
È un momento in cui avvengono cose bellissime per il mio percorso. A breve verrà pubblicato un album insieme al Tenore Murales de Orgosolo, in cui l’avanguardia post-rock incontra la tradizione del Canto a Tenore. Sicuramente è un lavoro a cui tengo moltissimo. Sul versante collaborazioni mi piacerebbe molto suonare con il pianista armeno Tigran Aymashan. Il suo approccio metal jazz alla tradizione mi affascina tantissimo ed è una delle voci più originali che in questo momento si possono ascoltare.
Se dovessi descrivere la tua relazione con la musica in una sola parola, quale sarebbe e perché?
Archeologia, perché continuo a scavare e sorprendermi, rinnovando il rapporto che ho con la musica fin da bambino.
Infine, una domanda che ti pone Valeria, la mia amica sarda: cosa hanno in comune, secondo te, la tua musica e la tua terra?
Tutto. La mia musica è circondata dal mare, è un’isola che vive la complessità delle tante pulsioni creative che ho dentro di me, cosi come la Sardegna è fatta di tante anime differenti ed esprime una miriadi di differenze culturali, linguistiche, musicali. E poi la mia musica si trasforma lentamente, come i graniti erosi dal vento. Spero che la salsedine riporti tutto alla materia espressa da un vinile che gira su un piatto, e che voi possiate dimenticarvi quello che avete letto per cogliere in purezza le note di Lema e farle vostre.
www.paoloangeli.com/
www.facebook.com/paolo.angeli.73
www.instagram.com/paoloangeliofficial/

di +o- POP