Se i Verdena suonano IoSonoUnCane (e viceversa)

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Di Antonio Serra

Il concetto di split è legato a filo doppio alla cultura punk, alle band indie e, più ingenerale, a quella del DIY ed all’alba delle etichette indipendenti, in quegli anni ’80 che tanto hanno costruito (quasi quanto hanno distrutto) di quello che ritroviamo nella cultura musicale contemporanea.
I Verdena non sono più una band indie da tempo, ammesso che lo siano mai stati davvero, ma di quell’approccio conservano un certo margine di indipendenza che si sono guadagnati negli anni, pagandolo con fatica, con critiche, con mezzi passi falsi e non ultimo con una lentezza disarmante nella composizione dei dischi, da almeno dieci anni a questa parte. L’autarchia dei Verdena unita alla bulimia compositiva di Alberto Ferrari hanno avuto come effetto la diluizione, quasi omeopatica, della qualità della proposta.
Dall’altra parte c’è Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, che al secondo album completamente autoprodotto, dell’autarchia compositiva e dei tempi lunghi di realizzazione ha saputo cogliere gli aspetti migliori: la ricerca, la sintesi, la cura dei dettagli. Ha sfornato nel 2015 un album, DIE, che è andato dritto in cima a tutte le classifiche di gradimento; dentro c’era tutto il background autorale che aveva lasciato intravedere nell’esordio La Macarena Su Roma (del 2010!!!) e tutto l’estro, l’attitudine arty, che in quel lavoro erano funzionali a strutture portate in giro con voce e chitarra e qualche ammennicolo. Con DIE l’autore sardo ha sciolto le cime e si è lanciato in una esplorazione interiore che lo ha portato ad osare, con la scrittura e la composizione prima, con l’esplorazione stilistica poi, divenendo di fatto un paladino dell’elettronica suonata ed usata bene.
I due cofirmatari di questo Split EP li ho visti più volte dal vivo, anche dividere lo stesso palco: in quella particolare circostanza Iosonouncane presentava un set completamente elettronico fedele in tutto e per tutto alla versione su disco di DIE, mentre i Verdena portavano in giro Endkadenz vol1. Era l’edizione 2015 del ColorFest di Lamezia Terme ed in quella occasione il mio amico Roberto Gentili ricevette la famosa proposta, da parte del trio bergamasco, di curare la grafica promozionale del futuro volume 2.
Iosonouncane l’ho poi rivisto proporre quegli stessi brani solo voce e chitarra, in teatro a Cosenza, per la rassegna Ragazzi Di Oggi, è stato uno spettacolo magico e toccante dove le doti compositive e vocali del “nostro” risaltarono scintillando tra il buio della platea.
Ma veniamo al disco: la scelta delle due formazioni (Iosonouncane si avvale dei cori della brava Serena Locci) ricade sulla reinterpretazione di due rispettive cover a testa prese dall’ultimo disco.
Jacopo Incani sceglie Diluvio ed Identikit, i Verdena propendono per Carne e Tanca.
Il gioco di ritrovare tra gli spartiti quanto della canzone originale sia rimasto è interessante e coinvolgente.
E’ il medesimo principio per cui ci si appassiona tanto alle versioni unplugged, per cui si ricercano le altered takes, per cui ci si affanna a scovare le reharsals. Ora, io non voglio sembrare uno di quegli impallinati che devono per forza incensare qualcuno di cui sono fan; anche perché non posso ritenermi un vero fan di Iosonouncane come non lo sono dei Verdena e poi per mia indole ricerco sempre l’obiettività nel racconto di ciò che propongo. Quello che sto per scrivere farà incazzare molti di voi che adorano ogni stecca della ditta Ferrari, però è palese che Iosonouncane da questi ascolti ne esce rinvigorito ed i Verdena gli pagano pegno.
Se la struttura di Carne e Tanca viene conservata, l’approccio strumentale vira drasticamente verso territori super stoner che riportano dritti a Requiem, ed anzi ne ribadiscono il debito (di quel disco) verso i primi Queens Of The Stone Age. Provate a cercare i bending ed i micro fraseggi in scala misolidia nascosti dentro Tanca, per non parlare dei chitarroni registrati come se avessero messo il microfono dietro la porta dello studio. Non mancano le incursioni nel beat e nella psichedelia anni ’70 tanto care alla loro produzione più recente, che qui ricordano più Battisti che i Flaming Lips.
Badate bene, il risultato è eccellente: i brani scritti da Incani si prestano in modo inaspettato a questo cambio di make-up ed i Verdena sembrano rinati nell’interpretarli con tale foga e attitudine. Ma quanto di questo è merito della forza, della solidità, della scrittura di Jacopo Incani?
Dopo aver ascoltato questi brani dapprima in versione elettronica, poi in versione acustica ed in fine in versione stoner, io mi sbilancio: almeno il 70% (e mi trattengo dall’andare oltre solo perché i Verdena ci mettono tanto del loro).
Se quella dei Verdena è una reinterpretazione fuzzosa ed accordata un tono in giù, Iosonouncane si prende la briga di destrutturare e rimodellare, scomporre pezzo per pezzo e ricomporre nuove forme con maestria e genuinità, con senso del moderno, dell’attualità. Iosonouncane supera l’estetica rock andando oltre il manierismo fine a se stesso. Le versioni di Diluvio e Identikit che ne escono fuori sono brani quasi completamente nuovi, tirati a lucido e confezionati come se la loro vera forma non dovesse essere che questa, fin da principio. E mentre la penna di Alberto Ferrari si rende trasparente alla reinterpretazione che ne fa Jacopo, perché diluita, liquida, modellabile, la scrittura di Iosonouncane si dimostra potente, vibrante, elaborata, matura.
Questo disco è la prova provata della caratura di Jacopo Incani: un artista da assurgere a nuovo punto di riferimento per la musica italiana contemporanea.
Iosonouncane affonda la sua trama liturgica nell’interiorizzazione di Dalla, Battisti, De Andrè, Tenco e tutti quanti quei maestri che hanno contribuito a costruire il concetto di canzone d’autore italiana.
Incani li prende, li mastica, li impasta di saliva e li ingoia, piano, con gusto e godimento. Se è vero che la rosa ha i denti nella bocca dei ruminanti, allora è così che Iosonouncane diventa il nostro nuovo messia portando la parola degli dei della canzone italiana, traducendola per noi nella lingua della musica contemporanea: fresca ed appagante, comprensibile e raffinata, avvincente e sostanziosa.
Questo disco è l’affermazione di come alla base di tutte le pippe mentali che ci si può fare sui generi, i suoni, le estetiche, le nicchie, il mainstream, i talent, l’underground , i soldi, la fame, quello che conta è una cosa sola: scrivere belle canzoni.

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