Intervista a Gianluca Morozzi: confessioni di un bolognese rock

C’era una volta un calciatore giapponese, si chiamava Hidetoshi Nakata ed è stato il primo calciatore nipponico di talento a calcare i campi di calcio italiani, a meno che qualcuno di voi non voglia considerare un calciatore quella macchietta di Kazu Miura da sempre ricordato come il primo esempio di marketing associato al pallone visto dalle nostre parti. Al contrario di Miura, Nakata era davvero un buon giocatore, e contribuì, in alcuni casi in maniera decisiva, alle fortune delle squadre in cui giocò, dal Perugia al Bologna passando per la Roma (maledetto te, vecchio Hide, almeno quanto il citofono Van Der Sar e il folletto Montella).
In un certo senso io e lui, che siamo quasi coetanei, ci assomigliamo parecchio.
No, non ho gli occhi a mandorla e si, mi piace il sushi, ma il punto è un altro.
Ora, dopo aver letto alcune di queste righe, vi chiederete cosa diavolo stia dicendo e perché, in un pezzo su Gianluca Morozzi e il suo nuovo libro, io vi parli di un calciatore giapponese.
Beh, dovrete aspettare la fine del pezzo, e se questa cosa vi dovesse spingere a cliccare su quella x in alto a destra e chiudere questa pagina web, sappiatelo, vi state perdendo una bella storia.
Bolognese come il ragù, la torre degli asinelli, la mortadella e Giacomo Bulgarelli, Gianluca Morozzi è uno degli artisti italiani che più di ogni altro merita l’appellativo “POP”.
Scrittore di talento con un numero impressionante di libri al suo attivo, che parlano di assassini efferati, ascensori pulp, supereroi o sgangherate rockband, conduttore radiofonico, musicista, soggettista e sceneggiatore di fumetti, candidato ad essere il 13° dottore, tifoso del Bologna e Dio solo sa quante altre cose, il Moroz è un uomo dei suoi tempi, che poi sono anche i nostri, e, probabilmente, è proprio il riuscire a tratteggiare personaggi ed emozioni in cui è incredibilmente facile identificarsi, seppure in contesti a volte estremi o surreali, che rende le sue opere accattivanti.
La leggenda del Moroz scrittore nasce nel 2001, quando Fernandel pubblica “Despèro” il suo primo romanzo, incentrato sull’ ascesa e declino, musicale e amoroso, di Kabra e dei componenti della sua Band. Oggi, a distanza di quindici anni Morozzi pubblica, sempre per Fernandel, “Confessioni di un povero imbecille”, il seguito del suo libro d’esordio.

 

morozzi

 

In Despèro, Cristian Cabra detto Kabra si ripromette di scrivere le sue “Confessioni di un povero imbecille” ovvero l’epistolario delle lettere mai inviate alla sua amata, una volta arrivato a 70 anni. Ad occhio direi che ci siamo arrivati con qualche anno di anticipo.
Come mai?
Perché Kabra, con lo stress che gli tocca vivere tutti i giorni cercando di fare l’artista in Italia, ha realizzato che non ci arriverà mai, vivo, ai settant’anni. Meglio farlo a quarantacinque.

 

Despèro era “una storia d’amore, di strade e di rock” . “Confessioni di un povero imbecille” invece che cos’è?
Una storia di strade, di rock, e di resistenza nonostante tutto. Perché Kabra, davvero, nonostante gli accada qualunque cosa, è indistruttibile. Al massimo impazzisce per qualche anno, ma non molla.

 

Despèro è un libro ancora oggi vivo e fresco pur avendo tre lustri sulle spalle, per certi aspetti si potrebbe dire che, se non ci fossero indicazioni specifiche, è un libro contemporaneo, su una generazione di ragazzi più vicini ai trenta che ai venti, in cerca di realizzazione. Cos’è cambiato rispetto ai primi anni 2000, l’epoca in cui è stato pubblicato per la prima volta il tuo libro?
Che all’epoca vivevo nell’ultimissima coda dell’interesse per gli esordienti nati negli anni Novanta, così che potevo uscire per un editore non enorme ed essere comunque recensito e preso a oggetto di discussione. E poi che in Despero Kabra odiava i cellulari, come li odiavo io all’epoca, e adesso abbiamo tutti e due l’iPhone.

 

Hai una tua “Crepuscolo”, la canzone che rese i Despero una one-hit wonder?
Un pezzo che avevo composto per i Mesmero, la mia prima band, intitolato “Crisalide”. Se in prova l’avessimo suonata ancora una volta, il nostro cantante avrebbe vomitato sul microfono.

 

Confessioni di un povero imbecille” è accompagnato da un cd degli Avvoltoi, la band di Moreno Spirogi tuo “complice” nel programma “L’era del Moroz” in onda su Radio Fujiko, che è liberamente ispirato al tuo libro. Come è nata questa (fantastica) idea e quanto hai messo di tuo nella realizzazione dei brani?
E’ nata da Moreno Spirogi, un altro che non molla, visto che tiene insieme le mille formazioni degli Avvoltoi dall’85. Dieci anni fa mi ha detto che voleva assolutamente realizzare un’opera rock su Despero… nel frattempo ha cambiato 84 formazioni, più o meno, ma alla fine ce l’ha fatta. Io, per nostra scelta, non ho contribuito in alcun modo: non volevo influenzarlo. Ci ho solo scritto un libro intorno, ecco. Quello lo so fare.

 

In una ipotetica bussola rock dei tuoi libri è facile individuare tre punti cardinali: Afterhours, Diaframma e (soprattutto) Springsteen. Qual è il quarto?
Bob Dylan. Gli ho dedicato un libro (“Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen”) e l’ho messo nel finale del mio romanzo” L’era del porco”. Tra parentesi suono negli “Street Legal”, che si esibiscono una volta all’anno, più o meno, e quella volta all’anno eseguono canzoni di Bob Dylan.

 

Quali “sono le tue strategie a lungo termine” ?
Conquistare il mondo. Finire la trilogia dell’Uomo Liscio. Continuare FactorY. Riprendere Leviatan. Riprendere Marlene. Riprendere Lajos e l’Orrido. Scrivere i tre romanzi che ho in mente.
Riconquistare il mondo.

 

EPILOGO
Questo è tutto caro lettore di Più o meno Pop, a meno che tu non sia un lettore di Novella 2000 che ha raggiunto questa pagina per una strana coincidenza interstellare.
Magari ti è rimasta ancora voglia di conoscere quella inspiegabile storia che ti ho raccontato su un calciatore Giapponese e che, in verità, io non vedo l’ora di raccontarti.
No, eh.
Beh, almeno un po’ si, ti stai chiedendo dove voglia andare a parare.
Ok, te la racconto.
Hide Nakata scelse di diventare calciatore per emulare le gesta di Tsubasa Oozora, da noi conosciuto come Oliver Hutton, e il suo famigerato Drive Shoot, il tiro ad effetto, chè capirete bene che negli anni 80, prima di internet e dei social network, trovare un calciatore giapponese in carne e ossa che potesse far nascere dentro di te il sacro fuoco dell’ammirazione era difficile, molto difficile.
A me è successa la stessa cosa, “Despèro” è il mio tiro ad effetto e quel giovane bolognese di nome Gianluca Morozzi, il mio Tsubasa Oozora.
E se ti sembra stupido, lasciatelo dire, magari sta per succedere anche a te, di prendere in mano un libro di Morozzi e voler iniziare a scrivere, come a me prima di te e al Moroz, che ha iniziato dopo aver letto gli “Urania” di uno Stephen King sotto pseudonimo, prima di me.
E non so proprio se augurarti una cosa del genere, amico lettore, perché non credo proprio che riusciresti a smettere più.

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