Da Roma Est al resto del mondo, il viaggio con il rap di Militant A

A cura di Serena Coletti

“Il rap è poesia orale per cominciare, poi è il grande casino che riusciremo a creare insieme.”

Iniziano così i laboratori rap di Luca Mascini, in arte Militant A, il rapper romano che ha cantato negli storici Onda Rossa Posse e che dal 1991 è parte degli Assalti Frontali.

I suoi sono sempre stati testi che cercavano di arrivare non solo al cuore, ma anche alla mente dell’ascoltatore, e da diversi anni ormai ha deciso di dedicare le sue attenzioni anche ai più piccoli, fornendo ai bambini un esempio di rap educato, istruttivo, intelligente. Così è stato contattato da scuole e da chiunque cercasse un modo coinvolgente per educare i giovani, dando il via ai laboratori rap. Questi laboratori, che sono una grande esperienza formativa per chi vi partecipa, hanno ormai un ruolo centrale anche nella vita di Militant A, che grazie a loro è riuscito ad vivere esperienze uniche e stimolanti.

Il suo ultimo libro, “Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo”, racconta proprio alcune di queste esperienze, ripercorrendo un anno di vita del rapper tra live, registrazioni, lotte politiche e laboratori, con i quali si è spinto fino in Libano. Il libro parte dal momento in cui Luca inizia a soffrire di acufene, la maledizione dei musicisti: per uscire da questa situazione capisce infatti di doversi concentrare sulle cose positive, e sente quindi l’esigenza di ripercorrere l’anno appena trascorso.

Abbiamo avuto la grande opportunità di fare a Militant A alcune domande su di sè, sul libro e sulle incredibili esperienze che narra, qui ci sono le sue risposte.

 

Nell’introduzione del tuo libro narri tutte le difficoltà che hai dovuto affrontare a causa dell’acufene, come stai ora?

L’acufene è un suono prodotto da una ferita, una ferita all’interno della coclea che è il centro dell’udito, dovuta a un rumore troppo forte o troppo prolungato, e quando avviene purtroppo non si rimargina, il danno è irreversibile. Si manifesta con degli impulsi elettrici sbagliati al cervello, perché il nostro udito è un meccanismo complicato fatto da impulsi elettrici. All’inizio pensi “ma come faccio a vivere così? Come arrivo a fine giornata? Come dormo?”, senti dei fischi, dei ronzii ininterrotti, invece è passato quasi un anno da quando è cominiciata e sono riuscito a metterlo all’angolo. Sto meglio, ma è un lavoro continuo che devi fare con il tuo cervello e con delle accortezze, anche scrivere questo libro mi ha aiutato.

 

Addirittura racconti che non potendo più salire sui palchi hai dovuto cercare un altro lavoro per la prima volta nella tua vita. Hai mai pensato di dover abbandonare definitivamente il progetto Assalti Frontali?

I live sono una parte centrale della mia attività e se non avessi più potuto farli avrei dovuto prendere decisioni drastiche, poi invece ho ricominciato, avevo solo bisogno di uno stop, tanti musicisti hanno l’acufene e dopo il primo momento che può durare mesi o anni riprendono, Caparezza, Bono, il cantante dei Coldplay, c’è chi dice “non si diventa rockstar senza acufene”. E’ un bel prezzo da pagare. Non so quanto durerà questa mia avventura, ogni anno me lo chiedo, nel frattempo allargo il raggio di azione, i laboratori rap in giro per il mondo mi hanno dato nuovi stimoli, e poi i libri, questo è il quarto.

Assalti Frontali @ Joggi Avant Folk 2017

E invece prima di intraprendere la tua carriera nel rap, hai sempre saputo che la musica sarebbe stata il tuo lavoro?

No, ho studiato all’università, mi sono laureato in economia e commercio, non ero sicuro sulla direzione da dare alla mia vita, ma la passione per quello che facevo sui palchi era troppo forte, mi chiamava, mi realizzava e vedevo che potevo farlo diventare anche un lavoro. Poi quando è nata la mia prima figlia mi sono messo sotto a tempo pieno.

 

Colonna portante di questo libro sono i tuoi laboratori rap, che hai svolto davvero in tutto il mondo, come è nata l’idea di questi laboratori?

Sono stati degli esperimenti iniziati ormai dieci anni fa nella scuola dei miei figli. La dirigente, che era Simonetta Salacone, una donna eccezionale dalle vedute aperte e molto stimolanti, e delle maestre e maestri della scuola elelmentare mi sentivano cantare e mi chiesero di lavorare dentro le classi, il primo progetto fu fare un rap sulla Costituzione. Poi ho continuato allargandomi alle medie, ai licei, e andando in Libano.

 

Parlando delle persone che partecipano a un tuo laboratorio, scrivi “Chissà se poi qualcuno di loro diventerà davvero un rapper (intelligente spero), non so nemmeno se augurarglielo, ma non è questo l’obiettivo.” Davvero non lo augureresti ai tuoi allievi?

La mia avvenura nel rap è felice, io sono contento di quello che faccio, di ogni concerto, di ogni incontro, di essere un rapper, però il mio è stato un percorso speciale, direi unico, io vengo dagli esordi, dalla vecchia scuola. E so che lavorare nel mondo della musica in Italia è dura. Fare i rapper poi… sono tutti in guerra gli uni contro gli altri, il rap è un genere che stimola l’ego, se non stai attento ti parte la testa. Devi essere molto convinto e dotato e non è detto che basti, soprattutto adesso che la guerra è ancora più accesa perché gira voce che si fanno i soldi, ma quanti? E per quanto tempo?

 

Il rap ormai è un genere ascoltatissimo, chi vuole provare a farlo è pieno di modelli, tu quali aspetti di questa cultura cerchi di insegnare?

Io cerco di comunicare quanto è bello esprimersi con un verso e che ricchezza per la vita è godere di questa risorsa. Poi spiego che il rap è una cultura che ha delle radici profonde e racconto dei pionieri che erano degli emarginati che trasformarono la loro vita e quella della loro comunità attraverso l’arte. Loro dicevano: “Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo”. Ora tanti cominciano con il rap perché ha sfondato come mezzo di espressione, e questo è giusto, ma poi non sanno niente su come orientarsi, vedono i modelli dominanti e pensano “conquista la classifica e conquisterai il mondo” e così deragliano.

 

La narrazione del tuo viaggio in Libano mi ha ricordato il bellissimo “Kobane Calling” di Zerocalcare. Lui partiva cosciente di dover poi narrare il suo viaggio, anche tu sapevi  già che quell’esperienza sarebbe finita nel tuo nuovo libro o è stata una decisione successiva?

Quando sono partito ho detto alla mia compagna, anche per convincerla: “Dai, magari al ritorno ci scrivo un libro come ha fatto Zerocalcare”. Ma mentre stavo lì, pensavo solo a fare quello che dovevo fare, scrivere le rime con i ragazzi, concludere al meglio quel laboratorio perché da lì si sarebbe giudicato il successo della missione, avevo a malapena il tempo per un post, per fortuna eravamo in quattro e abbiamo riportato tanto materiale video e foto, e al ritorno ho iniziato a pensare all’idea di un libro sui laboratori rap in generale e naturalmente il cuore sarebbe stato quello in Libano, poi è arrivato l’acufene e durante lo stop dell’anno scorso ho messo a punto il vero libro che ho pubblicato.

 

Scrivi “«Luca è andato a vivere in Libano». Ecco, mi piacerebbe che qualcuno desse una notizia come questa.” Che tipo di legame hai stretto con il Libano? Ci sei più tornato?

Non sono più tornato io, ma con la scuola Iqbal Masih abbiamo invitato la responsabile dell’educazione dei bambini palestinesi nei campi profughi in Libano, Najla Bashour, che fa parte dell’associazione di cui parlo nel libro quando andiamo nel campo di Sabra e Shatila, e abbiamo iniziato un gemellaggio con le scuole, che comporta scambio di lettere tra gli alunni e di esperienze tra maestre. Per quanto mi riguarda forse tornerò a settembre prossimo.

 

Il tuo collega Alessandro Pieravanti, con il quale hai scritto “Il Lago che Combatte”, in “Roma Maledetta” denuncia l’indifferenza come vizio più spaventoso di questa città. Al giorno d’oggi tra i musicisti sono davvero pochi quelli che si impegnano nelle lotte, e l’omertà è un atteggiamento molto diffuso, basti pensare allo scandalo appena uscito sotto il titolo #losapevanotutti. Da artista che ha sempre combattuto, prendere posizioni nette è stato un grande ostacolo per la tua carriera?

Un ostacolo per me… non lo so… io ho sempre fatto quello che volevo, forse l’ostacolo più grande è stato non volermi legare a certi giri, questo ha fatto sì che canzoni come “il rap di Enea” o “Il lago che combatte” o anche “Fino all’alba” non andassero per niente in rotazione sulle grandi radio o al concertone del primo maggio a San Giovanni, quando se lo meritavano ampiamente, ma per stare nel giro dei grandi passaggi devi stare nel cosidetto “business” e dividere la torta con chi poi ti sconsiglia di essere troppo radicale…

 

Anche nell’organizzare il concerto per “Il Lago che Combatte”, lamenti di essere stato ignorato dai nomi più importanti, come ti spieghi questa cosa?

Molti artisti che sono nel mainstream pensano le stesse cose che pensiamo noi, e prenderebbero parte a molte battaglie comuni, ma poi devono fare i conti con gli impegni che non li lasciano liberi… e, quindi, le battaglie concrete, quelle dei quartieri, quelle che cambiano davvero la vita della gente, al di là dei grandi paroloni, sono sempre sulle spalle della scena underground

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