Mi sono fatta esplodere – L’ntervista a Ilaria Viola

A cura di Serena Coletti

 

Ilaria Viola è una forza della natura. Ha la capacità unica di coniugare forma e contenuto, scrivendo canzoni piacevoli ma al tempo stesso mettendosi a nudo di fronte all’ascoltatore. Quando ho sentito il singolo che ha pubblicato l’8 maggio, “Se nascevo femmina”, me ne sono innamorata all’istante. Ho deciso quindi di ascoltare l’omonimo album e di chiamarla per farmi spiegare meglio cosa c’era dietro questo lavoro, e ne è nata un’intervista estremamente divertente ma anche fitta di riflessioni interessanti.

(Goodfellas / Lapidarie Incisioni)

 

Allora Ilaria, io vorrei partire facendo un passo indietro. Precisamente al 2014, anno in cui, dopo lunghi studi al conservatorio, pubblichi il tuo primo album “Giochi di parole”. Cosa ti aveva spinto a creare quel disco e per quale motivo poco dopo hai deciso di fermarti e allontanarti dalla musica?

Ciò che volevo dal mio primo disco era fondamentalmente la ricerca del bello. Venivo dal conservatorio in cui anche studiando jazz si studiava in realtà la musica classica, quindi la ricerca e lo studio profondo dell’armonia, della composizione intesa come veicolo per creare delle emozioni. Io volevo riportare queste cose nell’ambito cantautorale, volevo fare un disco che mi raccontasse ma che fosse prima di tutto dedicato all’estetica. Mi sono tolta delle soddisfazioni, però allo stesso tempo ho continuato a insegnare, e mi sono resa conto che a lungo andare l’insegnamento ti logora, quindi a un certo punto ho avuto proprio un “crack”. Ho deciso di abbandonare tutto, mi sono dedicata al mondo della gastronomia, solo che dopo un po’ di tempo non ce la facevo più, era evidente che mi mancava tantissimo la parte artistica e musicale di me. Quindi ho ricominciato a mettermi sotto, però da quando ho pensato di abbandonare la musica a quando l’ho ripresa ho avuto un momento di crisi, con la musica stessa e con la società che non mi permetteva di fare quello che avrei voluto fare nella vita: comunicare a tutti chi ero veramente. In più mi sono ritrovata in un mondo, quello del cantautorato, quasi totalmente maschile, adesso per fortuna le cose si iniziano a muovere. Allora ho iniziato una serie di lotte dentro di me, metabolizzando i fastidi che provavo verso la società. Poi, essendo io una persona che ha necessità di comunicare un’urgenza emotiva al resto del mondo, mi sono fatta esplodere. Ho deciso di diventare più violenta, diciamo un po’ meno tra le righe, più incisiva, e dire veramente quello che penso, quello che succede a molte e molti di noi, cercando di essere più sincera possibile. Mi ricordo che quando ho iniziato a scrivere questo disco un collaboratore di Lucio Leoni, Filippo Rea, mi disse “Ilaria tu ti devi raccontare. Devi smetterla di raccontare te stessa attraverso i filtri, devi veramente dire a qualcuno qualcosa in cui credi, devi cominciare a dire la verità”. Ecco, questo disco è la mia verità.

Hai faticato per riuscire ad esprimerti in maniera così aperta, così senza filtri, o nel momento in cui hai capito cosa volevi è stato tutto naturale?

No, guarda naturale proprio per niente. Pensa che sono passata per due contrabbassi, la prima formazione a cui avevo pensato per sbloccarmi erano due contrabbassi capisci? Quindi ho dovuto mettermi a sentire altre cose, che in realtà ho sempre ascoltato, perché comunque io vengo anche dall’ascolto dei Rage, non sono proprio estranea al genere, però sicuramente da questo a pensare di scriverlo la difficoltà c’è stata.

Nominavi infatti Lucio Leoni, che ha prodotto questo album. Durante l’ascolto sembra di sentire una sua influenza importante in alcune modalità espressive, è così?

Io e Lucio siamo cresciuti insieme, la prima volta che ci ho collaborato avrò avuto 19 anni. Lui ancora faceva il fonico e io la cantantina nei teatri. Sicuramente c’è stata un’influenza reciproca, lui ha influenzato molto il mio modo di scrivere, però quando cresci insieme a una persona, musicalmente parlando, è facile che prendi la stessa direzione. Io sono solo più lenta, lui va veloce, è super prolifico.

Questa tua lentezza è dovuta al fatto che scrivi più raramente o ci metti tanto poi ad aggiustare i brani, a selezionarli?

Quando scrivo un pezzo solo molto rapida. Sento il tema che mi infastidisce, sento proprio il tarlo, quindi lo accolgo. Quel tarlo rimane lì per un po’, io avviso le persone con cui collaboro che sta per uscire qualcosa, perché me lo sento. Poi quando è arrivato a maturazione è come un frutto che casca dall’albero: mi siedo al piano ed esce. Difficilmente ci rimetto le mani. Ad esempio, quando ho “Scritto se nascevo femmina”, tutte le persone che sentivano il pezzo, Lucio compreso in quel caso, mi dicevano “Ma sei proprio sicura che vuoi arrivare così diretta?”. Io gli ho detto di sì: “mi avete detto sii vera, che la violenza fa parte di me e devo essere violenta quindi sì!”. Avrei potuto cambiarlo ma il massimo delle modifiche che faccio riguardano la metrica, rendere un po’ diversamente alcuni accenti per farli suonare meglio nella melodia.

Sei passata quindi dal fare un disco principalmente per l’estetica a mettere questo aspetto decisamente in secondo piano, per una persona che ha una preparazione approfondita come la tua è faticoso questo? Mi viene in mente Manuel Agnelli, che ha detto di essere riuscito a scrivere solo quando dopo anni di studio del pianoforte ha preso in mano una chitarra, perché avere un’impostazione troppo precisa, troppo scolastica, limitava la sua creatività. È davvero così difficile?

Sì, sono molto d’accordo con questa affermazione, tanto che ti dico che adesso quando scrivo non c’è più lo strumento. Io scrivo gli accordi, perché me li immagino, poi chiaramente li rivediamo con il mio arrangiatore, però quando arriva il pezzo io lo scrivo e basta, senza prendere necessariamente in mano il pianoforte. Tanto quelle cose ormai le hai dentro, se tu vai a vedere anche “Se nascevo femmina”: è un punkettone che sembra una canzone che potrebbe scrivere veramente un bambino di terza elementare, ma in realtà analizzando la struttura ti rendi conto che non è proprio così. Quelle cose lì ti rimangono dentro per forza perché ormai le hai metabolizzate, però se non ti metti necessariamente davanti a uno strumento ma ti siedi a scrivere gli accordi così come ti vengono è molto più semplice, abbandoni tutta la gabbia. Sono assolutamente d’accordo con Agnelli perché diventa veramente una gabbia della quale ti devi liberare, se hai uno strumento con cui sei abituato sempre a scrivere o a insegnare è ovvio che diventa più difficile liberarsi.

Bene, ora vorrei addentrarmi un po’ più nell’album, partendo proprio dal primo brano, “Bamboombeto”, che parla di un viaggio in Giappone. L’hai fatto davvero? Non ne sembravi contentissima.

Sì, è tutto vero: sono stata un mese e dieci giorni in Giappone da sola. Sono andata a trovare un mio amico che è si è trasferito lì, poi però mi sono fatta tutto un giro e devo dire che mi è piaciuto da morire! È stato pazzesco, dei giapponesi si dice sempre bene, perché sono tecnologici, sono ospitali, ma se li vedi dal lato occidentale del mondo sono veramente fuori di testa! Quello che ho detto del Giappone è tutto verissimo. C’è la contraddizione ad esempio tra il fatto che hanno il 2% di immigrazione, perché veramente non puoi viverci se non sei giapponese o sposato con uno di loro, però quando arrivano i turisti sono sempre molto cordiali, ossequiosi. Anche alla dogana hai un po’ quella sensazione di quando vai in America, ti guardano con sospetto, ti fanno un sacco di domande, poi però le persone vivono sulla base del buddhismo e dello shintoismo, che se mi consenti la semplificazione è “vivi e lascia vivere”. Sono un popolo shintoista, che costruisce la porta del tempio sul mare perché poi il mare stesso diventa il tempio in un tutt’uno con l’universo, e invece vedi che si comportano così con gli stranieri, fa un po’ effetto.

Non credi che questa contraddizione, anche se in termini diversi, ci sia anche nella nostra società?

Proprio questo voglio dire io, che ci stiamo arrivando. Lo shintoismo e il buddismo sono religioni che tendono all’apertura, a differenza del cattolicesimo, che, sarò sincera perché non me ne frega proprio niente, è estremamente costrittivo. Quindi se anche in un popolo come il loro la tecnologia e il consumismo hanno fatto sì che poi nelle città diventassero come sono oggi, così chiusi, così fissati sui soldi e sulla posizione sociale, figurati cosa succederà qui tra poco. Io quando sono andata ho visto proprio la fine del mondo.

In Italia siamo sempre più abituati ad un atteggiamento superficiale nei confronti della religione, eppure sembra un tema che ti preoccupa. È così, l’incapacità di andare a fondo un po’ ti spaventa?

No, non mi spaventa un po’, io sono terrorizzata. Questo perché oltre a fare la cantautrice faccio l’insegnante, e vedo l’involuzione dei ragazzi, vedo molto spesso la totale apatia. Soprattutto la generazione dei ventenni mi sembra davvero persa. (Qui le ho fatto notare che stava per insultare la mia generazione, quindi ci ha tenuto a precisare che esistono delle eccezioni, ndr) Il fatto che stiano distruggendo il sistema scolastico è un dato di fatto, il fatto che portino le persone a ragionare sempre meno è un dato di fatto, ma io oltre a denunciarlo non posso farci niente.

Arrivando al tema centrale dell’album, partiamo proprio dal titolo, perché hai voluto chiamare questo disco “Se nascevo femmina”?

Questa è una storia familiare, un giorno mi ritrovo a tavola con le mie cugine, che avevano tutte quante figliato, e a un certo punto arriva la fatidica frase “Tanto tu non sarai mai completa come donna finché non farai un figlio”. Io mi rifiutavo di credere che anche la mia famiglia potesse essere così, mi sono molto arrabbiata, ho detto loro delle cose anche spiacevoli per quanto riguarda la realizzazione personale. Ho capito che, a parte mia madre che mi ha sempre sostenuto, la media delle donne purtroppo la pensa così. Lì mi è proprio cascato il mondo addosso, già ero in crisi con la musica, stavo cercando faticosissimamente di fare un disco che si rompesse e riuscisse a tirarmi fuori, quindi ho deciso che il disco si sarebbe intitolato “Se nascevo femmina”, perché ho capito che scegliere di non fare figli significava non essere una femmina.

Poi è arrivato il brano con lo stesso titolo.

Sì, il pezzo “Se nascevo femmina”, è nato dopo. Perché io e tutte le donne dovremmo semplicemente avere la possibilità di scegliere e fare quello che vogliamo senza per questo essere additate ed etichettate. Ognuno esprime la propria natura non attraverso il modo che ha di apparire, ma attraverso il modo che ha di essere. Se io indosso scarpe di Chanel non vuol dire che sono frivola, ma che voglio indossare scarpe di Chanel, punto. Se non voglio un figlio non sono una sterile e rigida, semplicemente non voglio un figlio.  

Le femministe prima hanno avuto un sacco di cose brutte da superare, quindi spesso lo hanno fatto anche con la violenza, erano più aggressive. Il femminismo di oggi, che io conio come neofemminismo, deve combattere con dei demoni insiti nella coscienza delle persone senza che queste se ne rendano conto. La violenza purtroppo non serve più, bisogna cercare o di prendere in giro o di convincere il prossimo. Non è più una lotta contro qualcosa che si vede all’esterno, ma contro cose davvero radicate, ed è difficilissimo. È difficile soltanto far capire che sono radicate, anche nelle donne stesse. Magari dicono “Io anche se sono madre oggi posso mettermi la minigonna, posso uscire la sera, non è che qualcuno me lo vieta.” Capisci? “Non è che qualcuno me lo vieta?”, ma per me è allucinante il fatto che fino ad ora qualcuno abbia potuto vietartelo! Bisogna scavallare questo scoglio che secondo me è uno dei più difficili, perché non può passare attraverso la violenza e l’ovvietà, ma dobbiamo affrontare un condizionamento sociale e psicologico che abbiamo avuto, anche nei confronti di noi stesse, per migliaia di anni.

Quindi tu pensi sia un problema che non riguarda più tanto i diritti, ma piuttosto la nostra base culturale?

Sicuramente. Ad esempio, ti parlo di un tema caldo: le quote rosa. Secondo me sono un po’ un’arma a doppio taglio: in una società abituata da sempre al fatto che i ruoli di potere siano maschili c’è bisogno di una legge che stabilisca che non è così, perché altrimenti le donne non ci saranno mai, bisogna un po’ forzare la mano. Questo però ti espone a delle critiche, le persone penseranno che sono le donne ad essere favorite, ma alla fine dico che da qualche parte si deve iniziare. Mi auguro solo che sceglieremo donne migliori di quelle che abbiamo scelto fino ad adesso, e di questo non ne faccio mistero visto che le nomino anche sul brano. Spero ci siano persone più consapevoli, più meritevoli, e che si possa andare verso una femminilità più “neutrale”, non necessariamente combattiva. Mi sono stufata un po’ di combattere. E figurati che io ho appena cominciato…

Eppure non si direbbe dall’album, non suoni stanca.

No, infatti. Più che stancata di combattere mi sono stupita che ci debba ancora essere tutto questo. Mia madre era una femminista, io sono cresciuta con lei, quindi fino a una certa età la mia realtà era femminista, era del tutto naturale. Quando poi mi sono trovata nel mondo reale, non artistico, non capivo proprio quello che diceva la gente. Mi sono sentita cresciuta come un’analfabeta affettiva, una persona che pensa di stare in un mondo e poi quando lo conosce capisce che in realtà questo sta un po’ più indietro. Pensavo che fossimo molto più avanti, quindi più che stancata mi sono proprio disillusa.

Credi che abbia un senso quindi l’essere donna? C’è una differenza per te, al di là di quella biologica?

Sì, e per ognuno è diversa. Non credo che ci sia un modo di essere donna e un modo di essere uomo. Secondo me è un discorso estremamente complesso, da cantautrice quale sono, che al massimo ho studiato filosofia e musica, posso dirti qual è la mia idea. Io sono convinta che gli ormoni muovano il mondo, ed effettivamente a livello endocrino uomini e donne sono differenti. Di base una differenza c’è, ma questa è stata ampliata e imposta dal genere maschile nel corso dei secoli. Adesso la difficoltà sarà proprio quella, capire quali sono le reali differenze e quali sono quelle che invece sono state imposte.

Una cosa che mi ha molto colpito è che la tua biografia inizia non parlando di te ma parlando di Roma. Pensi abbia influenzato così tanto la tua persona?

Questo lo dico forse più in relazione al primo disco, anche se poi emerge pure nel secondo. Io sono nata e cresciuta a Centocelle, da una nonna di San Lorenzo, romana di sette generazioni, una di quelle romane antiche che parlava per frasi fatte e detti. Quindi ci sono queste cose che tutt’ora mi escono, e non sempre la gente le capisce, perché ovviamente dipende dalle origini che hai. Mi ha fatto riflettere su quanto la poetica delle frasi fatte che mia nonna ripeteva abbia poi condizionato il mio modo di pensare. Te ne dico una su tutte, ancora una volta sul tema dei figli, quando mia madre mi chiedeva di aiutarla, magari di apparecchiare, e io mi rifiutavo lei diceva sempre “Mi sono fatta le molle per non scottarmi le dita”. Mi rendo conto che queste cose, che io dico con ironia, perché mai penserei di fare un figlio per questa motivazione, ma neanche mia nonna o mia madre, tutte queste cose minuscole entrano nel tuo gergo quotidiano e necessariamente ti condizionano.

Un’ultima curiosità, per quanto riguarda “Per la gola”, l’unico brano non scritto da te. Lo hai sempre pensato come parte di questo album? Cosa ti ha fatto venire voglia di inserirlo?

La mia amica cantautrice Leila Bohlouri stava scrivendo il suo disco quando ha composto questo pezzo, solo che, a suo avviso, la stesura del disco non le consentiva di renderlo plausibile e credibile all’interno dell’organico del suo lavoro. Io ho provato tantissimo a convincerla ad arrangiarlo e inserirlo, perché secondo me non poteva lasciarlo fuori, ma non c’è stato verso. Ero innamoratissima di quel pezzo, quindi a un certo punto mi disse “Ma perché non lo fai te? Io l’ho scritto pensando alla tua voce”. Poi ci siamo un po’ perse di vista, perché nel frattempo sono passati 4 anni, ma è tutt’ora una mia amica, quindi le ho fatto sentire i primi provini del disco, ha sentito in che direzione stavamo andando, e mi ha chiesto “Ma “Per la gola” come ce lo metti in questo lavoro?”, e io le ho detto “Guarda, nudo e crudo così come è la canzone”.  Lo volevo secco, chitarra e voce, l’ho solo leggermente variato perché ho abbassato la tonalità, l’ho reso più grave. L’ho sempre pensato così e quindi mi sono detta che forse non c’entra niente con il disco, ma ci sarebbe stato comunque, vediamolo un momento di raccordo tra il primo e il secondo.

 

Grazie mille Ilaria, è stata una chiacchierata bellissima. Ci vediamo il primo luglio a Roma per la presentazione ufficiale!

 

 

 

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