Si entra in sala che non si sa bene cosa aspettarsi. “IRIS: A Space Opera” è stato presentato nelle sale il 28 agosto ed è l’ultima grande fatica dei Justice, ovvero Gaspard Augé e Xavier de Rosnay, attivi nella scena elettronica francese dal 2003. Un film, uno spettacolo, un live? Nessuna di queste e ciascuna a suo modo.
Ma facciamo un passo indietro: Women Worldwide – l’ultimo album dei Justice – ha da poco compiuto un anno. Portato in giro con l’omonimo tour, è valso al duo francese un Grammy come il miglior album dance/elettronico del 2018, e quindi meritava giustamente di essere celebrato, raccontato, cristallizzato.
Il fatto è che Gaspard e Xavier sono insoddisfatti delle riprese dei loro live: nelle interviste raccontano che spesso preferiscono i filmati girati col telefonino dal pubblico, allora provano anche loro a girarli così, ma niente. Non sono del tutto soddisfatti neanche dei due film precedenti, A Cross The Universe e Access All Arenas, che avevano cristallizzato i rispettivi tour mischiando le riprese dei live a momenti di backstage, pre-show, after-show e follia della folla.
Ecco, proprio a questo sono interessati: la loro volontà è raccontare cosa vive il pubblico, non tanto (o non solo) riprenderlo.
E quindi? Decidono di provare a registrare un live senza spettatori, con l’epico Live at Pompeii dei Pink Floyd come riferimento. Il risultato è, appunto, “IRIS: a Space Opera”, un progetto ambizioso, che già dal titolo e dalla locandina omaggia Kubrick, che ritornerà più volte come riferimento visivo nelle inquadrature. Ambizioso ma riuscito, e infatti presto scaccia tutti i miei timori: sarà noioso? Sarà troppo lungo? La risposta è no, non è niente di tutto questo.
Il film si apre con una lunga introduzione all’opera in forma di interviste: ci sono ovviamente Gaspard e Xavier, ma anche i due registi André Chemetoff (già direttore della fotografia negli epici video del buon Gavras) e Armand Beraud, il produttore Pedro Winter e Vincent Lérrison.
Ed è un’introduzione assolutamente necessaria per comprendere a pieno quello di cui si tratta: un live utopico, perfetto, costruito in studio per essere registrato di volta in volta dalla miglior prospettiva possibile. E infatti, le riprese concorrono a potenziare gli straordinari effetti visivi studiati da Lérrison, considerato quasi un terzo membro della band, che accendono un luccicante dancefloor facendolo vivere in modo inaspettato fin dall’inizio.
In principio il buio.
Lentamente, un bagliore che aumenta di intensità fa gradualmente percepire i cavi, il palco, gli strumenti e gli onnipresenti muri di amplificatori Marshall, come se il set fosse un grande organismo di cui imparare a conoscere l’anatomia man mano che prende vita.
Poi, la magia: a tratti, l’intero allestimento assume la forma di una cattedrale costruita secondo i principi di un’architettura futuristica e sognante, poi distopica e angosciante quando le cromie virano verso il rosso e il ritmo si fa sempre più frenetico.
Infine, si decolla oltre la stratosfera, con i Justice che sembrano suonare nel tunnel di una navicella spaziale (e qua, davvero, è subito 2001: A Space Oddyssey).
Si arriva quasi a smarrirsi, al punto che a momenti non si sa più quale sia il punto di vista. Si perde la cognizione dello spazio fisico e ci si ritrova catapultati nello spazio, ipnotizzati da visual effects astrali e pianeti in psichedelica congiunzione. Luci e suoni si intrecciano in un’armonia così perfetta da essere quasi opprimente. Finisce così, con le luci che si accendono, un bagliore soffuso e diffuso e Xavier e Gaspard che scendono dal palco. La croce, in lontananza: andate in pace, la messa è finita.
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A cura di Francesca Lotti