How to Disappear Completely – Radiohead

Sé

(Foto Wikipedia)

La notte scorsa, quando il caldo, affatto mitigato dalla lieve brezza che faceva capolino dalla finestra appena aperta, rendeva densi respiro e pensieri, tanto da chiedermi se è successo davvero o ho immaginato tutto, se dopo averlo tanto desiderato non avessi avuto che l’immagine di me e te insieme, nella stanza colorata di rosso e bianco incrostato. La notte scorsa ho deciso che l’avrei fatto ancora una volta prima di andare via e cercare di dimenticare tutto.
Così ho sistemato le lenzuola e mi sono vestito lentamente e silenziosamente, senza correre il rischio di disturbarti. Ho mangiato l’ultimo pezzo dell’anguria comprata il giorno in cui ci eravamo rivisti e bevuto tutta l’acqua rimasta nella bottiglia di vetro, direttamente dal collo, senza usare il bicchiere. Hai sempre odiato che lo facessi e ho sempre continuato a farlo, sapendo bene che ad ogni discussione, anche la più stupida, sarebbe seguita la più dolce delle riappacificazioni.

La fermata del tram, che ne sarebbe anche il capolinea, è in una strana piazza, piena di tavolini sistemati sotto le ombre artefatte di gazebo di tela bianca e metallo. Non sono solo, sarebbe quasi impossibile tra turisti qui indirizzati da guide assai poco originali e cittadini bisognosi semplicemente di un mezzo di trasporto che renda più lieve il continuo saliscendi di questa città, che non c’è e non esiste.
Resto in fila, ad aspettare che il conducente risalga sul suo mezzo giallo di legno e ferraglia e ci consenta di salire. Saranno quasi le dodici e qualche centinaio di gradi e le dodici persone in fila davanti me non aspettano altro. Dieci turisti muniti di mappe ed inutili libri che disegnano percorsi ripetitivi e obbligati in mezzo ai piccoli labirinti attorno al Castello o alle strade che la notte si accendono di sguardi e sorrisi e vociare allegro e sereno, laddove si non può fare a meno di perdersi e perdersi ancora. E poi questi due signori, che devono esser padre e figlio, lo capisco dal modo di parlarsi e da quel modo compassato di rivolgersi l’uno all’altro, affettuoso e rispettoso, che solo i Lisboetas hanno. Guardo il cielo azzurro macchiato d’ocra e bianco e ripenso alle tue parole davanti alla porta di casa, mentre cercavo di girare la chiave nella serratura, al solito bloccata tra la prima e la seconda mandata.

“è la scelta giusta, amore mio?”

Allora avevo lasciato la chiave attaccate alla serratura e mi ero girato lentamente, cercando di mascherare il disappunto per una discussione che ritenevo inutile, di cui non vedevo il senso e che, senza alcun dubbio, non avevo nessuna voglia di portare avanti. Avevo preso il suo viso tra le mani, accarezzando il labbro superiore con i pollici, e incrociando il suo sguardo, lucido per le lacrime a stento trattenute, col mio, ero riuscito a mentire ancora una volta.

Arriva il tram, saliamo uno dopo l’altro in una di quelle regolari ed infinite file che hanno accompagnato ognuna delle giornate trascorse qui, convalidando tutti il biglietto su una di quelle macchinette elettroniche che fanno decisamente a pugni con il profumo di passato del resto del tram. Uno  dei due, con occhiali rotondi ed il viso preso direttamente da uno scritto di Pessoa, è decisamente più giovane dell’altro, che sarà sulla settantina visti i pochi capelli completamene bianchi ed il volto segnato da rughe profonde. Vestiti con pantaloni di lino leggero blu e una polo, bianca per quello con le lenti, di un celeste tenue per quello più anziano, si siedono appena davanti a me, dandomi le spalle. Lo sferragliare delle rotaie  ed il cigolare delle porte sfidano il dolce silenzio delle strade che si inerpicano, spigolose ma aggraziate, su per l’Alfama. Lo sguardo segue le immagini che si compongono dai finestrini calati giù per il gran caldo, colorate istantanee di una vita che sembrava non potesse esistere più.
La prima volta che ci siamo incontrati eravamo a Belem, al Monastero dos Jerónimos, dove entrambi  ci trovavamo per un Ritiro Spirituale con le nostre parrocchie. Il nostro tutore in quello che sarebbe dovuto essere la tappa iniziale di un cammino che avrebbe condotto alcuni di noi a indossare l’abito talare, era cugino del parroco della sua parrocchia, il che, nei tre giorni trascorsi li ci aveva portato a condividere momenti di preghiera e i pochi momenti di ricreazione che avevamo in comune. Ricordo ancora la grande invidia che provavamo nei loro confronti dato che a loro era concesso trascorrere molto tempo nel chiostro del monastero e nelle strutture ricreative, essendo il loro più che un ritiro di preghiera una vera e propria gita. Avevamo dodici anni e a dodici anni si stringono rapporti con assai più facilità di quanto possa accadere in altri momenti della vita.

Tutto scorre eppure tutto si dilata, il tempo, le persone, le emozioni, i ricordi. Il cielo terso come quello di un paese di mare, il sole chiaro e forte, le case appese l’una all’altra.

I due signori non hanno smesso un attimo il loro chiacchierare alternato a sorrisi appena accennati, come se stessero ricordando di giorni andati via serenamente, senza fare assolutamente caso sguardo, a tratti insistito. Il tram si ferma sulla piazza sottostante il castello, dove i due signori e un bel po’ dei turisti scendono, lasciandomi da solo in compagnia di una coppia di ragazzi che dovevano esser saliti qualche fermata prima, essendo nel frattempo aggiuntosi nessun altro. La vista da qui è meravigliosa, il leggero vociare della gente del posto si mescola ai più rumorosi turisti, gli uomini, che cercano riparo dal sole sotto gli ombrelloni del chiosco della piazza, alle donne, che si portano al viso i fiori dei buganvillee per assaporarne il profumo,  e ai bambini che si rincorrono su ciottoli poco  stabili, cercando di evitare di cadere. Questo posto è un posto che non esiste, sospeso tra quello che è stato e quello che potrebbe essere, un posto indefinito e senza tempo. Riparte, lento e affaticato supera piccole e strette curve, si ferma e riparte ancora. Poi si ferma, si stacca il cavo che lo collega alla rete elettrica. Si ferma davanti ad un piccolo Miradouros, apparentemente uguale a tutti gli altri, chioschetto, tavolini e piccola statua con la base larga in marmo, alberi e sguardo su uno scorcio d’acqua bello come il mare.
Mentre l’autista scende cercando di risistemare nuovamente il filo, un ragazzo seduto per terra sotto un imprevisto e maestoso albero di pino, indossa lentamente una benda nera sugli occhi, come se stesse officiando chissà quale tipo di rituale. Poi si alza e a piedi nudi lascia l’ombra per dirigersi al centro della piazza. Inizia con il percuotere col palmo dei piedi il ciottolato, in maniera regolare, poi, muovendo le braccia e il busto verso il cielo in maniera ritmica,  inizia il suo canto e la sua danza. Percuote l’intera piazza ancora coi piedi, poi con le mani, con un ritmo lento e frenetico, ogni colpo secco e deciso. Il suo cantare è un lamento leggero e disperato, una preghiera ed una maledizione al cielo e alla terra, un sacrificio  che si consuma danzando e colpendo, danzando e colpendo senza fermarsi mai. Mi sorprendo a guardarlo ammirato, forse sconcertato, rapito dall’intensità dei suoi gesti apparentemente scoordinati e della sua voce, stridente e dolorosa. Mi perdo nei suoi gesti e nelle parole che non capisco e come me, lentamente, altra gente si ferma a guardarlo, radunandosi attorno alla piazza ad osservare, senza fiatare, senza cercare di capire. Prima che me ne possa rendere conto il tram si rimette in movimento, lasciandomi con lo sguardo teso verso il Miradouro fin quando la curva, l’ennesima curva che sottende ad un nuovo saliscendi, inghiotte l’intera scena lasciandola sospesa. Non sono qui e non so dove sono, probabilmente altrove o da nessuna parte, dato che questa città non esiste, neanche nelle note di un Fado suonato da un vecchio signore in un angolo di Praça Adega dos Vinhos né nel ricordo lasciato in bocca da un sorso Ginjinha. Il tram si ferma e riparte, si riempie e si svuota più volte. Il caldo si mischia al profumo di sardine arrostite e glicine, bevo l’ultimo sorso della bottiglietta d’acqua con la quale mi accompagno da stamattina e la rigiro tra le mani, ormai da solo in attesa del capolinea di Martin Moniz. Le strade si allargano, le curve svaniscono, lo sguardo è arrestato dai palazzi grigi e colorati, conservati nella loro semplicità, il Tejo non si vede quasi più. Al capolinea mi godo per qualche attimo il silenzio del tram vuoto e fermo, poi scendo, salutando con un gesto della mano l’autista intento a sostituire l’indicazione del capolinea, che mi ricambia con un sorriso leggero e cortese. Vedo, pochi metri più in là, nuova gente pronta a salire sul tram, in fila ordinata con gli occhi vaganti e curiosi, stanchi e sereni, allegri ma malinconici e mi chiedo se non sia il caso di risalire per un nuovo viaggio, se lasciar ancora del tempo in mezzo a qualcosa che non esiste non sia, in fondo, null’altro che una benedizione.
Se perdersi senza trovarsi più non sia meglio di passare un’intera vita a cercarsi senza trovarsi mai.

 

LA CANZONE

How To Disappear Completely è una canzone di Kid A, quarto album dei Radiohead, pubblicato nell’Autunno 2000, a tre anni di distanza da Ok Computer. Anomala ma coerente con la rotta artistica intrapresa rispetto all’album rispetto al precedente, è una ballata ipnotica e alienante, sospesa e intensa, reale e spettrale allo stesso tempo.