Without you i’m nothing – Placebo

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Il cielo nelle notti d’estate sembra una scacchiera, nuvole piccole e spesse che frammentano il cielo mostrando scampoli di notte incorniciate dal verde e dagli strani ornamenti del giardino giapponese di Holland Park. È da qualche settimana che passo qui le ore successive al turno di lavoro del giovedì sera, da quando l’orario di apertura di questo piccolo gioiello è stato prolungato per una serie di manifestazioni di musica classica organizzate in una zona adiacente del parco per festeggiare Dio solo sa quale compleanno della simpatica vecchietta che qui si ostinano a chiamare regina. Che in realtà deve esser fantastico potersi vantare con i tuoi amici di un qualunque altra nazione europea priva di reali di avere nientepopodimenoche una regina che faccia da riferimento all’esistenza tua e della tua gente. In realtà a me non ha mai fatto gran simpatia la monarchia, me l’avranno spiegata male ai tempi della scuola mi sa. È stata comunque una buona scusa per poter stare in questo giardino, forse il mio posto preferito in tutta la città, in orari per me più rilassanti, senza il pensiero di dover correre al lavoro ne di dovermi preoccupare per il gran trambusto di orde di bambini urlanti che inseguono una sfera piuttosto che un ovale.
Ogni tanto a farmi compagnia ci sono i due ragazzi, un indiano e un irlandese, che occupano le stanze vicino la mia nel condominio in cui vivo, anche loro, come me, improbabili camerieri in locali della città alla ricerca di qualcosa di più consono alle loro  capacità. Non parlano molto, soprattutto l’indiano che si esprime più a mimica facciale che non a parole, ed è questo che probabilmente me li rende maggiormente digeribili rispetto a tutti quanti gli altri. Una sera di qualche settimana fa, mentre un’orchestrina jazz riempiva l’aria con una improbabile rivisitazione di Miles Davis,i due si erano sfidati in singolar tenzone narrando delle rispettive imprese compiute durante le estati della loro giovinezza. Entrambi avevano avuto la prima ragazza e la prima sbronza, lo spinello e il naso rotto da un pugno, le vittorie in un torneo di calcio e gli scherzi cattivi, le delusioni d’amore e d’amicizia. E così via per ore e ore con me che li guardavo divertito e ascoltavo le loro storie come se provenissero da chissà quale realtà a me sconosciuta.
Le mie estati dai tredici ai sedici anni sono sempre state invece un continuo ripetersi delle stesse scene. Una spiaggia larga e lunga, da non vedere altro che ombrelloni e rare canne da pesca. Un sole che non smette di picchiare in testa. Mia madre e mio padre che si caricano di sdraio e ombrelloni e riviste e termos con l’acqua tenuta in frigo dal giorno prima e vettovaglie varie. Io con il walkman, un libro tra quelli lasciati da mia madre anni prima, quando ancora pensava che Camus e Pirandello valessero più di una novella duemila qualunque, la gazzetta dello sport già abbondantemente letta prima di scendere in spiaggia. I vicini d’ombrellone coi quali si davano appuntamento di giorno in giorno che ci salutano da lontano, mia madre che mi urla di darmi una mossa che il sole mi fa male. Questo maledetto sole a picco sulla mia testa e questa maledetta sabbia che mi brucia la pianta dei piedi. Mio padre sistema l’ombrellone come meglio può e sa, l’ombrellone si stacca e cade giù con mia madre che impreca al vento che non c’è e a me che non faccio nulla. Poi lo sistemiamo, poi ci sistemiamo sotto la sua rassicurante ombra, e passiamo alla parte in cui io non voglio mettermi la crema ne metterla a mia madre, non voglio togliermi la T-shirt ma finisco per cedere al caldo insopportabile, e la tolgo, non voglio ascoltare i loro discorsi ed alzo il volume fino a bruciarmi i timpani. E passare il tempo tenendo gli occhi fissi sulla stessa pagina ed urlando più forte di Miro Sassolini le parole di Siberia senza farmi ascoltare dagli altri. I ragazzi che giocano a pallone o a Racchettoni, che fanno i fighi con tuffi plastici ed inutili pur di attirare l’attenzione delle ragazzine col primo o secondo bikini della loro vita. Ed io sotto l’ombrellone, a ripararmi dal sole e dalle parole della gente e dai loro inutili figli. I miei amici andavano al mare da un’altra parte, in posti che immaginavo meravigliosi e pieni di gente che valesse la pena frequentare. Ed io no, dovevo passare ventiquattro ore su ventiquattro per trenta giorni trenta a sperare disperatamente che tutta quella inutile routine avesse una maledetta fine. Forse per questo continuo susseguirsi di eventi non riesco a collocare con precisione il ricordo di quella giornata, di come accadde che i miei genitori accettarono di trascorrere la notte sulla spiaggia per la Notte di San Lorenzo. Non uscivano mai, più per pigrizia che per altro, preferivano di gran lunga farsi venire a trovare a casa dai loro amici o da qualche parente più prossimo e restare fino ad un’ora non particolarmente tarda nel piccolo giardino piastrellato davanti la porta di casa nostra. E non era difficile trovarsi con un paio di loro ogni sera a farci compagnia. Coetanei mai, tranne i miei cugini coi quali trascorrevo la maggior parte delle serate che non passavo davanti la tv a riguardare ogni volta gli stessi film O qualche torneo estivo di calcio. Gino Cervi e Fernandel mi hanno salvato dalla follia più di una volta in quegli anni, conoscevo a memoria tutte le battute dei primi due Don Camillo da quante volete li ho visti, sempre con lo stesso disperato bisogno di sollevarmi dalle pene dell’inizio della mia adolescenza e gliene sarò sempre riconoscente.
Proprio per questo non capivo la necessità di far qualcosa di nuovo, di così nuovo da costringermi a trascorrere al buio svariate ore nell’attesa di pezzi di roccia vaganti per lo spazio scambiate per suggestive stelle portatrici di chissà quale auspicio. Con quegli idioti dei signori degli ombrelloni accanto e le loro parole e, ancor peggio, le chitarrine stonate e i Battistimogol devastati ed i Vvascorossi scimmiottati dei loro inutili figli. E le batterie del walkman si consumeranno prima che la notte mi porti via, lo so, lo so, lo so. “mangeremo sulla spiaggia la carne arrostita dalla fiamma del falò e se vuoi potrai approfittarne per riprendere a pescare”
disse mio padre per cercare di invogliarmi ad affrontare meglio la serata, dimenticando che avevo deciso di non andare più con lui a pescare proprio perché mi vergognavo come un cane a passare ore con una canna in mano e tornare a casa con le mani che puzzavano di bigattini e pastone ma assolutamente nulla nel secchio da dieci litri che ci portavamo dietro. E di restare da solo a casa neanche a parlarne, ovviamente.
Arrivammo che il sole era quasi scomparso, erano li solo le due famiglie di Roma che villeggiavano ogni anno in quel piccolo paese del Tirreno. Avevano già acceso il falò, compito del quale si erano autoincaricati, demandando ai miei di acquistare la carne da arrostire. La roba da bere e qualche anguria da lasciar poi raffreddare immergendola nei pressi della riva del mare, in un’acqua tutt’altro che fresca, abitudine questa mutuata da un qualche astuto parente di mio padre che evidentemente non aveva mai fatto un bagno nell’acqua bollente tipica del nostro mese di agosto, le avrebbero invece portate più tardi i miei zii. I loro figli avevano invece ottenuto la dispensa a quella sottospecie di festa presenile facendo finta di avere una improvvisa febbre, che avrei scoperto qualche giorno dopo assolutamente inventata, ed i loro amici, dei signori Toscani originari delle nostre parti, nostalgici di un tempo e di una vita che, per me, non era esistita se non nella loro immaginazione. Non c’è piu aria splendida e leggera, qui. La gente fa finta di correre su e giù per i tanti impegni quando invece corre e basta, corre e fa finta di fare, soprattutto se non ha niente da fare. Se ne sarebbe accorto anche un ragazzino ingenuo e distratto, ed infatti ne ero assolutamente consapevole. Ma loro no, ed i miei e tutta la loro combriccola nemmeno. Nessuno di loro vedeva la realtà per ciò che era e non per ciò che volevano che fosse. Io si, e anche i miei amici, quelli che villeggiavano altrove dicevano la stessa cosa. Solo che loro avevano avuto la prova di quel che dicevano, avevano avuto le settimane ad imparare l’inglese in Irlanda e le visite ai parenti lontano da qui, ai fratelli maggiori che studiavano fuori e tornando raccontavano cose di un mondo che, ai nostri occhi e a quelli dei nostri genitori non esisteva. Ma esisteva, eccome. Era fatto di sudore e concerti e ribellione e paura e testa dritta e occhi bassi. Era il mondo di chi non si accontentava, di chi voleva di più perché sapeva di poterlo avere. E invece loro qui, a bivaccare e brindare a non so bene cosa. A qualche cazzo di stella cadente? Alla mediocrità a cui si erano condannati e dalla quale sentivo di non potermi sottrarre? La notte più buia della mia giovane vita, accompagnata dai pensieri più bui che potessi fare e dalla compagnia peggiore che avessi mai avuto, e giuro di averne avute. Ma i compagni delle medie, tutti jeans firmati e capelli perfetti erano almeno compensati da quei tre perdenti tre che si gloriavano del loro non essere allineati, dei loro gusti fuori moda, delle loro assoluta critica al sistema, che allora era poco più ampio del edificio scolastico e del parco docenti, ma che a me sembrava il preludio ad una rivoluzione che avrebbe condotto il popolo, il mio popolo, quello fatto da me e quelli come me, a diventare i leader di cui la gente senza infamia e senza lode non può non avere bisogno.
Ma nessuno ha bisogno di nessuno, né in questa né in altre vite. I tre perdenti tre iniziavano a frequentare altri perdenti come loro, allineati come loro ad idee delle quali non riuscivo a distinguere la differenza con quelle di coloro i quali avversavano. Eravamo tutti in cerca di un posto al sole, pronti ad accontentarci di un ombrello che non ci lasciasse zuppi sotto la pioggia che non cessava di cadere in quei maledetti anni che stavamo attraversando. E tutti quelli che mi stavano attorno in quella sciagurata notte ne erano la riprova. Ed allora ho cominciato a piangere, in silenzio. A piangere per i miei pensieri, per il mio futuro, per quello che non avevo e per quello che non ero. Non so come fece mia madre ad accorgersene, delle mie lacrime. Non si vedeva niente ad un palmo e non ero abbastanza vicino al fuoco del falò perché qualcuno se ne potesse rendere conto, ma mia madre se ne accorse, e si posò accanto a me senza aprire bocca. E dopo qualche minuto anche mio padre si aggiunse a noi, ma avevo già smesso e i miei occhi erano già pressoché asciutti. Mi chiesero di prepararmi perché saremmo andati via da li a poco. Gli chiesi come mai tanta premura, gli dissi che a me andava bene restare li, mi ero calmato e averli vicini, sentirli vicini mi rendeva più sereno, anche se non me ne accorgevo fino in fondo.
“Le stelle possiamo vederle anche da casa, le stelle si vedono dappertutto. Il cielo è lo stesso per tutti e in tutto il mondo, a scuola non te l’hanno insegnato, piccolo? Anzi se guardi bene e sei fortunato magari riesci a trovarci pure un arcobaleno in mezzo alle stelle” disse mia madre col migliore dei suoi sorrisi. Ed allungò la mano per tirarmi su, quasi di peso, e andammo tutti e tre a casa, senza salutare nessuno tranne mio zio. Il giorno dopo mio padre chiamò gli amici per scusarsi adducendo come motivazione dei problemi di stomaco forse per la carne poco cotta o la birra troppo fredda, fatto sta che era dovuto scappar via. Loro non se la presero affatto, anzi sfruttarono la cosa come pretesto per un nuovo falò che si sarebbe tenuto qualche giorno dopo. Né a quello né ad altri falò ho mai più partecipato, neanche quando ad organizzarli c’erano i miei di amici, quelli coi quali ho condiviso gli anni meno cupi della mia adolescenza, quelli con cui potevo condividere le ansie e le aspettative e che magari hanno poi preso strade divergenti dalla mia, che non mi hanno magari mai capito davvero ma che da me non hanno preteso nulla che non potessi dargli. Prima della fine di quell’estate ho trovato un vecchio libro di poesie, dalla copertina sgualcita e ingiallita dall’umidità che solo nelle case al mare sa essere così opprimente. C’era una pagina piegata a metà, come a volermene segnalare una.

è così che i sentieri si incontrano, alla fine di un percorso?
In una scogliera su un mare placido e indifferente,
senza il soffio della brezza che accarezza la pelle avvizzita
è cosi che le pagine si chiudono tra le nostre mani
che la musica si spegne e i colori mutano verso il nero
mentre immagini cercate a lungo sbiadiscono nei ricordi
è così che diverge il passato dal presente
che le dighe si aprono all’acqua
che i gesti ripetuti quotidianamente diventano inconsueti
è così che nelle notti di attesa
ci si arrende alla consapevolezza di se
e all’abitudine di non considerarla fine

Gli ho raccontato questa storia quando mi hanno chiesto cosa avessi fatto io invece nelle mie estati da ragazzino. Alla fine di una improbabile traduzione della poesia, mi sono saltati addosso e mi hanno abbracciato, lasciandomi con il dubbio che si trattasse di un compassionevole gesto di affetto, dettato dal fatto di trovarsi davanti lo sfigato protagonista di quel racconto. Ma mi ha fatto piacere, devo ammetterlo.

La mattina dopo l’indiano mi ha chiesto di chi fosse la poesia della sera precedente, scoprì qualche giorno dopo che voleva saperlo per comprarmi il libro in cui era contenuta e farmene dono per il mio compleanno che sarebbe caduto da lì a qualche giorno, ma non lo ricordo e, francamente, non ha molta importanza di chi fossero quelle parole.
Non sono mai stato capace di dirlo meglio di così, nessuno me l’ha mai detto meglio di così. Neanche qui, sotto il cielo a scacchi di Holland Park, riesco a vedere le stelle cadere stanotte. Non so neanche se sono le stelle a cadere davvero o, come vogliono farci credere, sono dei semplici pezzi di roccia che il caso o chi per lui fa passare così vicino al nostro pianeta da renderli luminosi e scintillanti da squarciare la notte. So che c’è un cielo, ed è lo stesso per tutti. Che basta guardare nel punto in cui lo stai guardando anche tu, per sentirmi meno solo, e sperare, almeno fino alla fine di stanotte, almeno finche non mi cacceranno via da qui, di scorgere un arcobaleno tra le stelle.

LA CANZONE

Il secondo disco dei Placebo, come non sono mai più stati. Una canzone meravigliosa, dolorosa, passionale.

E l’ha cantata anche David Bowie, cosa altro vi serve?