I Nirvana raccontati a chi non c’era

Di Fabio Izzo

nirvana

 

Inizia l’autunno a splendere, irrorando la sua pioggia, donando nuovi colori alle foglie che dal verde monotono passano ora al giallo cremisi, a marrone bronzoso, al rosso incessante e con esso si torna anche alla musica dei Nirvana.
C’era un film, non ricordo il titolo, dove il protagonista decideva di abbandonare la Grande Luminosa Mela e la sua carriera da Spin Doctor per tornarsene a Seattle. Il politico per cui lavora gli chiede: – E chi te lo fa fare? La risposta era qualcosa del genere:- Mi mancano le domeniche piovose e la sua musica.
Proprio così, anche se penso che non ci sia un mood per ascoltare i Nirvana, piuttosto associo i loro album “vivaldianamente” alle stagioni. In questo momento sto ascoltando l‘Unplugged e sto scrivendo questo pezzo che promisi tempo fa ad Antonio. Io non sono un esperto musicale, sono un fruitore casuale di musica e l’epopea dei Nirvana l’ho vissuta sulla pelle, tanto che guardando Californication mi commossi nel punto in cui Karen e Hank, guardando il telegiornale apprendono della scomparsa di Kurt.
Sarebbe ingiusto e ingeneroso, e sicuramente lo è, limitare tutto solo e sempre alla tragica fine del cantante, i Nirvana sono stati grandi e lo sono ancora.

 

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Tanto che nella mia sconosciuta biografia, cito questo passaggio…colto e irriverente, irriverentemente colto dai Simpson nella puntata in cui Homer fu, per una breve parentesi della sua vita, il re del Grunge.
Quando lo incontriamo, in un anonimo e stantio bar, ci appare subito togliendoci la luce, è lì in piedi, goffo e vertebrato come un Kurt Cobain obeso e coi capelli castani, insomma più un Homer Simpson dei Sadgasm che un’icona rock…
Il mondo, sopratutto grazie a loro, fu incredibile, tutto sembrava possibile e per un certo periodo lo è stato, se si pensa che l’up & down passava dal pop di Michael Jackson ai griff arrabbiati di tre ragazzini di provincia disadattati.
Purtroppo per voi, Antonio mi lascia campo bianco in queste sue follie editoriali, così per farvi capire cosa sono per me i Nirvana ripropongo qua di sotto la mia riflessione estemporanea sul profondissimo piano delle province (Hildebrando Aristolakis) ovvero: la cosa più bella del Piemonte è Anita Caprioli.

 

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Sotto quelle statue di santi, ai piedi di quelle salite che portano alle chiese, sui gradini di quei palazzi, che erano schiavitù antiche e ora ancore di un tempo passato, gettate in questo presente pieno di mancanze dii prospettive, lo sapevano tutti.
Così proprio lì, che poi è il mio qui, c’erano loro Anna e Michele.
Due nomi e nessuna identità.
20 anni di provincia che fanno un’eternità di noia sulle spalle e l’aria di chi ha già capito che è troppo tardi per farcela nella vita: qualsiasi cosa questo significhi.
Seduti ad un tavolino di un bar quando il mondo gira le spalle alle villeggiature e i telefonini ricominciano a squillare per le pelli scurite dei manager che si riaffacciano alle costellazioni dei soliti bar per l’immancabile aperitivo.
Acqua e menta, bevi come i bambini, Michele…
Anna…lo sai che mi piace… e poi non bevo, non berrò mai, arrivato a questo punto… a proposito l’hai letto quel romanzo di Pilchener, proprio bello!
Eccolo qua, di nuovo qua, sempre qua… il mondo va avanti e noi restiamo qua! E io con te…tu uno qualunque a perdere tempo con romanzi che nessuno legge.
– Questo mondo è troppo veloce, troppo, pieno di azione e privo di comprensione, se avessero letto quel romanzo…
– Sei tu…siamo noi che siamo lenti alla nostra età… non abbiamo fatto nulla.
– E cosa c’era da fare?
– Non lo so Michele, l’avessi saputo non pensi che l’avrei fatto invece di stare, di stare qui con un lavoro del cazzo? Non so…forse andarsene…
– Andarsene? E dove Anna? Ti sei sempre sentita fuori posto…ovunque!
– Si, ma in vacanza?
Le vacanze, ma se sono quattro anni che non vado da nessuna parte, Annae poi la vita non è una vacanza e ogni estate è sempre così, te che ricominci con questi discorsi…il mondo corre, ha preso i suoi ritmi, ha i suoi ritmi anche con le vacanze, pensa i last minute…come fai ad andare in vacanza all’ultimo minuto, sembra una corsa contro il tempo, non una vacanza… e noi? Perché tu come… sei, siamo fuori da tutto, da t-u-t-t-o! Ma guardali con le loro facce sempre così sorridenti, sembrano finti, cosa avranno da ridere, non gli costa forse a loro, quel sorriso dal dentista? E poi agende, cellulari, chiamate, brunch, a darsi appuntamenti, ma per che cosa poi? Che avranno da fare? Che avranno fatto in vacanza se non le stesse chiamate, gli stessi aperitivi e gli stessi sorrisi? Non hanno niente da dirsi quei manager dell’ultima ora, che poi il mondo andrebbe benissimo avanti senza di loro; anzi meglio, ma loro sono lì con quell’aria di chi sembra averlo salvato lui il tuo di mondo-
– Certo, loro saranno così… forse, come li additi tu, ma hanno qualcosa, sanno dove stanno andando e invece tu? Il supereroe che salva il mondo: saresti tu Michele?
-No, ma per lo meno non me la spaccio, sono quella nullità che so di essere.
Michele, finito di pronunciare lentamente la parola essere, molto più lentamente del vocabolo nullità, corso sul palato in fretta e furia per preparare teatralmente l’esplosione tardiva di una parola statica come essere, beve e manda giù l’alchimia di acqua e menta.
-Bevi quel bibitone da bambino! Michele, tu hai paura di andare via!
-Di andare via? Di Andare via? E dove? Si deve bere per andare via, bevendo si scappa solamente.
-Ma Michele, quante cose ci siamo persi restando qui?
-Non so…cosa ci siamo persi restando qui?
-Ascoltami… i Beatles!
-Anna, ma se non eravamo nemmeno nati.
– Allora…i Nirvana, Michele…i Nirvana te li sei persi tutti.
Ma Kurt arriva da una di quelle schifose province come la nostra, senza quella provincia non sarebbe mai arrivato a noi.
Il piano diabolico delle megalopoli usato per Belushi, tornava anche per Cobain pensava Hildebrando fissando la strana coppia che avrebbe potuto benissimo essere filmata da Tarantino perché Pulp Fiction è un Kaddish moderno sulla morte delle periferie.
Cambio inquadratura, pensa Hildebrando, dai suoi pensieri al dialogo dei due ragazzi, scorre il carrello del regista e si apre il buio con le seguenti parole di Anna.
E il BOSS, quello che te piace tanto?
– L’ho visto a Genova, a Marassi, e non è lui che canta le storie di provincia, l’ultimo album poi…
– Michele, non devi convincere me. Devi convincere te stesso che restando qui perderai altro.
Anna, per andare a servire i servi altrove, resto qui, dove nessuno mi considera, mi conosce o che…non ho da predicare o rotte da inseguire, non sarò quel genio che sarei stato altrove.
– Ma Michele, dimmi cosa ti fa restare in Piemonte, in questa parte di Piemonte che poi non parte, non va da nessuna parte…è un luogo senza tempo, addormentato…toh senti le campane della chiesa, pensi che da qualche altre parte del mondo le potresti sentire così dormendo?
– Sono le cinque e mezza è c’è il sole.
– Di questo ti importa, Michele? Che sono le cinque e mezza e che c’è il sole? Cosa c’è di bello qui, dimmelo Michele?
– La cosa più bella del Piemonte sotto al sole è Anita Caprioli e lo disse con quel tono da bambino bugiardo che sa di dire la verità almeno per una volta bevendo il suo ultimo goccio di acqua e menta.
Sotto l’ombra di un campanile piegato agli angoli smussati della storia, accompagnato dai rintocchi sordi di una campana che aveva già detto tutto in altre occasioni, proprio lì sotto mi guardava il cielo e dopo tutto non gli pareva una brutta giornata.
Non avevo niente, nulla e nessuno e le mie ambizioni non interessavano alla mia provincia ma stranamente cominciai a continuare nel credere che non era e che non poteva essere davvero una brutta giornata.

 

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Passiamo ora a Gus Van sant, il regista della provincia, quello di Da Morire e di Elephant. Anche lui si è cimentato con un omaggio al nostro eroe della provincia, lo scomparso leader dei Nirvana: Kurt Cobain. Raccontandoci i suoi ultimi giorni in una versione grunge della passione. Last days. Gli ultimi giorni di un anno 1994 destinato a finire col mese di aprile nei libri di storia della musica. L’anno in cui finì l’adolescenza di molti e il mondo sembrò a tutti un posto più schifoso di quel che già non fosse. Era il 5 aprile, data destinata a diventare famosa, un pesce d’aprile rimandato di quattro giorni quando il mondo si scoprì privato di Cobain. Il re del grunge se n’era andato e aveva lasciato molti interrogatori alle spalle. Sul suo viso invece aveva lasciato la pazzia delle armi da fuoco.

Il film Last Days si ispira e si concentra proprio su quei giorni, su quegli ultimi giorni. Gli ultimi giorni di vita di una personalità tormentata, di una rock star destinata a diventare maledetta. Sesso, droga e rock n roll era il cliché che poteva andare prima dell’avvento dei Nirvana. Dopo di loro, il mondo (in generale) non era più così semplice. E’ vero che la droga in questa storia non è certo mancata, ma compare in maniera differente rispetto al passato, non c’è attimo di allegria o di euforia, qui è tutto legato all’incomunicabilità, alla disperazione, a quel cercare di mettere a tacere la verità in qualsiasi modo. È questo lo scopo del film, film che risulta destabilizzante e incompleto anche se non privo di meriti. L’argomento è scabroso, la linea da seguire è difficile, non bisogna scontentare i fan e né tanto meno cadere in una serie di loghi comuni e stereotipati del mondo del rock. Così il film prende una strada sua, tortuosa e fantasiosa, si lega al mondo lunare di Cobain, ci mostra le sue paure, manie e crisi, in maniera fantasiosa, nessun testimone se non per l’appunto la fantasia. Non è morboso, non cerca di ricostruire fedelmente quei giorni, li ricrea in maniera artistica e sensibile.

Due scene su tutte: il dialogo di Blake/ Curt con l’uomo delle pagine gialle per l’annuncio pubblicitario di un’officina meccanica, che ci mostra l’assurdità del mondo e i nostri sterili tentativi di comunicare qualcosa d’importante in un qualche modo improvvisato, e alla fine si crolla. La seconda scena che vogliamo citare è quella in cui il protagonista si rinchiude in uno spazio suo per suonare. L’inquadratura è solamente da fuori, si vede la casa con i suoi muri di pietra, si vedono gli alberi secolari destinati a sopravvivere. Una finestra, da cui non ci è dato vedere nulla se non la nostra insicurezza e la nostra incerta curiosità. Da dentro esce la musica, un brano grunge cupo e ipnotico suonato come sfogo. E Kurt, là dentro da solo con la sua musica, in quel mondo che solo lui davvero, sapeva e poteva aprire. Peccato che per questioni legali ed economiche, semplicemente per non venire sbranato da Courtney Love, Van Sant non abbia potuto usare i nomi Nirvana, Kurt e Cobain nel film. Cambiando così il nome del protagonista in un oscuro Blake.
Un efebico Michael Pitt si cala molto bene nella parte stralunata del personaggio. Personaggio grottesco questo musicista ispirato a Kurt Cobain, Van Sant lo rende simile a un Looney Toones in carne ed ossa che sembra perennemente alla caccia di Bugs Bunny...circondato da personaggi inutili, non funzionali alla storia ma forse per questo scelti dal regista, deciso a mostrarci in questo modo la solitudine contemporanea. Non un film facile, non un film classificabile, è un’opera che andrebbe vista e che forse sarebbe piaciuta allo stesso Kurt Cobain, unico giudizio: Nevermind.
Ora la smetto di annoiarvi, concludendo con quella che è una delle mie frasi preferite che ben riassume tutto il mio amore, la mia passione per questo gruppo e che volendo potrebbe essere paragonata a quel celebre “Che vi siete persi”, scritta apparsa sui muri del cimitero comunale di Napoli nel 1987 in occasione della vittoria del primo scudetto degli azzurri:
Essere cresciuti senza aver ascoltato la musica dei Nirvana è come essere stati ad un festa di compleanno ed essere andati via senza aver mangiato la torta.

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