Orange 8 e la magia della Foresta

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Orange 8 – Let The Forest Sing – Homeless Recording

1. “Arancio”

2. “Maasika”

3. “Ghost Road”

4. “Japanese Room”

5. “Rainy Night”

6. “Dancers’ Voyeur”

7. “Le Chateau De Mon Ivresse”

8. “My Baby Is Gone”

9. “Let The Forest Sing”

 

Orange 8 è un interessante progetto nato a Roma dall’ incontro musicale tra Sergio Ferrari  Valentina Criscimanni,  che collaborano assiduamente dal 2010. Il duo, che ha un’ attitudine tra l’on the road  e una sorta di flower power multietnico in chiave moderna, in studio si avvale di molti musicisti. I due romani si muovono tra sonorità eleganti e suggestive, sempre in bilico fra folk rock psichedelico anni 60/70 e musica etnica, dream pop e oscuri riflessi sperimentali riconducibili tanto al trip hop della prima metà degli anni 90 quanto a certe divagazioni da rock cosmico di matrice teutonica.

Let The Forest Sing” è un disco ricco e variopinto composto da nove episodi. Si comincia con la swingata Arancio“, unico brano in italiano, dal taglio schiettamente pop, che tra wha-wha riverberati e ritmi samba risulta essere un ottimo brano dall’ appeal radiofonico.

Maasika”  è come  una delicata ninna nanna. Violoncello, Slide Guitar e arpeggi pizzicati accompagnano la voce soave di Valentina che mi ricorda vagamente, in questo frangente, le timbriche acid jazz electro-acquatiche di Nina Miranda. Arriva poi il western country di Ghost Road“,  cavalcata ibrida in cui una splendida parte di chitarra solista, piacevolmente “seventies”, ci conduce per mano fino alla seconda parte del brano: un’ epopea originale e ben riuscita di psych rock messicano di scuola Goat

In Japanese Room”  ci troviamo nei territori psicottivi ed entusiasmanti di guerrieri della Pace e dell’ Amore come la  Kozmic Blues Band  o i seminali The 13th Floor Elevators; si tratta davvero di una Rock Ballad psichedelica da manuale che chiude con un sample di una voce femminile giapponese. La pioggia ci annucia la malinconica Rainy Nightin cui acustiche tenebrose e arpeggi soffusi fanno da tappeto ad una linea vocale intima, ma glaciale, come l’ inverno che ormai è alle porte. Il disco prosegue e il sound della band inizia a rivelarsi nella sua completezza. Arrivano infatti episodi in cui la colorata verve multietnica iniziale scivola imprevedibile verso un’ oscurità affascinante, come in Dancers’ Voyeur”  che frulla jazz e afro beat con un mood notturno ed intrigante, fatto di basso e batteria ma anche di piani elettrici e sax, che ci riportano ai primi Massive Attack e alle strade fradice di Bristol. 

La sensazione che il paesaggio sonoro della “foresta” stia leggermente cambiando in un sorta di “electro-rivelazione” nella seconda parte del disco, trova conferma con il mio brano preferito del lotto:  Le Chateau De Mon Ivresse“. Il pezzo risulta affascinante, tenebroso e sperimentale, il cantato in francese fa da collante a layers di synth e feedback, sonorità Dub, bassi pulsanti; divagazioni alla Portishead pervadono la prima metà del brano per poi essere interrotte da un lick di chitarra ultraterreno e dal taglio nettamente post rock. In questa seconda parte del brano i nostri, come dei novelli Can romani, ci trascinano nei meandri più sperimentali del rock. Splendido!

Ci avviamo così alla chiusura con il “quasi” D’n’B di My Baby Is Gone“, la sua bellissima linea vocale che risuona acida sensuale ed evocativa e terminiamo il viaggio accompagnati dalle voci degli animali della foresta in Let The Forest Sing”. Qui cori hippie e ukulele si sciolgono allucinati in lontananza, come dal nulla affiora una space ballad tra vocalizzi in idiomi africani e l’eleganza armonica imprevedibile del pop più alternativo.

Si tratta, in definitiva di un gran bel disco dal respiro assolutamente internazionale. Come direbbero nella capitale: “daje” così, ragazzi!

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