a cura di Roberto Pollio
Il ragazzino non doveva avere più di tredici anni, correva all’impazzata sui ciottoli bagnati andando chissà dove.
Donna Maria lo guardava dal balcone e sorrideva, era sempre allegro suo nipote, non aveva pianto nemmeno quando era nato, secondo il padre era sintomo di stupidità, ma lei lo aveva sempre saputo che sarebbe diventato qualcuno d’importante.
Intanto il ragazzino, che si chiama Gianni, superava vecchie insegne logore e artigiani senza verve in pose plastiche e cani rannicchiati per nascondersi dalla pioggia sempre più battente.
Gianni doveva dare una notizia importante al fratello, che poi ero io, quindi continuava saltare da un marciapiede all’altro, quasi senza toccare terra.
Io ero al bar, bevevo un caffè con una correzione d’anice e leggevo le notizie del giorno sul giornale locale: un morto in fabbrica, una truffa a delle vecchie ingenue, il governo che arrancava nella riforma fiscale e lo spettro delle combine alle corse ippiche .
Non lavoravo da più di due mesi e i soldi mi stavano per finire, tradivo mia moglie e mi ero messo a bere troppo, per il resto scrivevo delle poesie ridicole sui muri dei cessi pubblici e mi tuffavo nel mare freddo d’inverno.
Quando Gianni entrò nel bar io ero già uscito, i suoi riccioli neri erano impegnati di sudore e la maglietta troppo lunga per lui era sporca di smog e acqua piovana.
Voleva dirmi che aveva trovato un lavoro per me, che mia moglie mi aveva perdonato {ci aveva parlato Donna Maria} e che sarebbe andato tutto apposto, suo fratello maggiore si sarebbe salvato.
Ma era arrivato in ritardo.
La pioggia aveva smesso di battere ed i vicoli sembravano un quadro astratto, giochi di luci, ombre cupe che rimbalzavano come rane in pozzanghere solitarie, voci grevi da saracinesche socchiuse e rumore di pentole che tintinnavano nei bassi mentre casalinghe perpetue cucinavano carni grasse e sughi corposi.
Mi stava ancora cercando quel piccolo bastardo, ma io non lo sapevo e cercavo una prostituta per soffrire un po’ di più, per cadere ancora, così da odiarmi sempre più ferocemente e non dormire e piangere e rimanere a fissare bicchieri e sangue sulle mani dopo risse inutili in bettole rumorose dove quasi si intuiva dalle facce che tutti aspettavano solo il momento di estrarre il proprio coltello e piazzarlo nella pancia di un barbuto vecchio peccatore figlio di troia.
Ma non c’era nessuna prostituta a quell’ora, quindi andai al museo archeologico e scelta una panchina nel giardino interno mi addormentai all’ombra di una statua greca che mi guardava costernata e compassionevole allo stesso tempo, era una donna dal seno piccolo e i fianchi larghi, mi faceva pensare a mia madre.
Così crollai in un sonno colorato e misero, aspettando che qualcuno mi portasse a fondo per sempre, mentre il piccolo Gianni mi cercava per salvarmi e così senza saperlo mi trovavo in un limbo decisivo, nel mio personale antinferno.
Due mesi dopo sarebbe scoppiata la guerra e ci sarei morto in quel dannato putrido fango di confine.
Morto per una patria che detestavo, accanto ad uomini che non parlavano la mia lingua, allucinati matti occhi persi nelle orbite e braccia senza mani.
Sarei morto per un colpo casuale partito dai miei commilitoni, farsa quasi comica, esenzione surreale dal mondo terreno.
E quando crollai con la faccia nel terreno pensai a Donna Maria e al piccolo Gianni, che é dura crescere e morire al Sud, che é dura crescere e diventare adulti.
di +o- POP