Motta ed I Hate My Village: la foresta di Sherwood è sempre più verde

Motta

a cura di Paolo Cunico

Che lo Sherwood Festival sia un appuntamento fisso ed imprescindibile della calda estate Padovana (e non solo) non è una novità. E non è nemmeno una novità che gli organizzatori, i volontari e tutto il personale di questa bellissima foresta riescano ogni anno a migliorare un appuntamento che è già sinonimo di qualità nel panorama dei festival italiani.

Eppure, nonostante questa doverosa premessa, il salto in avanti fatto da Sherwood quest’anno è notevole, sopratutto nella riduzione dell’impatto ambientale del festival: zero plastica monouso, stazioni per la raccolta differenziata in ogni angolo e personale impiegato nell’aiutare le persone a riciclare correttamente i propri rifiuti. I risultati di questi sforzi sono sotto l’occhio di tutti, perchè l’area del festival è pulita, i bicchieri per terra sono una rarità e la maggior parte delle persone si sforza a riciclare correttamente i propri rifiuti, in altre parole, un sogno.

Se l’atmosfera attorno al palco è perfetta, quello che succede sul palco è ancora meglio, grazie alle superlative performance firmate Motta e I Hate My Village.

I Hate My Village – Alberto Ferrari (Verdena), Marco Fasolo (Jennifer Gentle), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35)

Ad aprire le danze, in tutti i sensi, sono gli I Hate My Village, che travolgono il pubblico con un concerto irresistibile, impossibile da non ballare. I suoni ruvidi e aggressivi si mescolano alla tecnica dei musicisti in una commistione coinvolgente ed immediata che attira anche la parte del pubblico più pigra, quella che progettava di cenare durante il “gruppo spalla“.

Gli I Hate My Village dal vivo sono travolgenti, un piacere per l’udito, per la vista e per i nervi. È impossibile non lasciarsi andare mentre Andriano fa l’amore con la propria chitarra sulle note di Tramp, oppure mentre l’intera band si lancia occhiate d’intesa mentre improvvisano un’incredibile transizione da Tony Hawk of Ghana ad una strabiliante cover di Don’t stop ‘til you get enough di Michael Jackson.

I Hate My Village

Tempo di un rapido cambio palco ed è Motta a salire sul main stage dello Sherwood. Solo, avvolto nell’oscurità con la chitarra in mano  si affaccia a ringraziare il proprio pubblico. C’è tanta gente allo Sherwood per il cantautore toscano, che inizia con La fine dei vent’anni in solitaria, con la band che sale sul palco a metà canzone, per un inizio ad effetto, intimo e scenografico, che scalda subito la platea.

Motta

L’evoluzione di Motta rispetto alla tournée del suo primo disco è notevole. Fedele al suo nucleo storico di compagni di palco, con Cesare Pitulicchio dei Bud Spencer Blues Explosion alla batteria, il cantautore toscano ha arricchito la band con l’ingresso di Matteo Scannicchio alle tastiere e Carmine Iuvone al violoncello offendo un spettacolo ricco ed emozionante, anche grazie alle suggestive atmosfere create dalla coreografia luminosa.

Motta

L’arrangiamento live dei pezzi, di entrambi gli album è perfetto, tutti gli strumenti sono calibrati e pensati, a conferma dello spessore artistico di Motta, passato in pochi anni dai palchi di provincia alla messa in scena di uno spettacolo degno dei grandi festival, mantenendo però inalterato il contato con i fan. Ci sono parecchi momenti di racconto dove Motta racconta se stesso e le sue canzoni, dichiarando di non vergognarsi di essere una persona con un pensiero di sinistra: una presa di posizione rara al giorno d’oggi, dove la politica sui palchi viene quasi ignorata. Proprio attraverso questi momenti Motta mantiene un contatto quasi fraterno con il proprio pubblico, caricandolo a puntino per interagire durante le canzoni con canti e battimani a tempo.

Motta

Quella di Motta e la sua band è stata una performance da ricordare, un concerto pensato, arrangiato e suonato divinamente, apprezzabile anche da chi non è suo fan. Una performance di spessore di un artista vero, che dimostra il suo valore in maniera oggettiva, al di là del gusto personale di chi ascolta, coronata da un’esecuzione di Roma stasera da pelle d’oca.

Evviva Motta, evviva gli I Hate My Village ed evviva lo Sherwood Festival che ha organizzato una serata memorabile, non solo grazie agli artisti offerti ma anche ad un organizzazione impeccabile, rilassata e, sopratutto, educativa. Una dimostrazione che si possono organizzare concerti che funzionano senza fare terrorismo all’ingresso, senza proibire a qualcuno di portarsi un panino fatto da per risparmiare qualche euro, senza produrre metri cubi di plastica e offrendo acqua a gratis.

Non si sono visti musi lunghi e frustrati allo Sherwood, solo persone rilassate che lavoravano o che si godevano la musica. Durante il concerto di Motta c’era una bambina di al massimo 10 anni sulle transenne con la madre, era stata li a prendersi il posto ancora prima che iniziassero gli I Hate My Village. Un responsabile della sicurezza sotto il palco se ne è accorto e le ha offerto una bottiglia d’acqua, con un bel sorriso stampato in faccia. Grazie Sherwood che ci hai mostrato che si può far rispettare le regole ad un concerto con la disponibilità ed i sorrisi, merce rara in Italia.

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Leggi la nostra recensione di I Hate My Village.

Informazioni su Paolo Cunico 71 articoli
Nato sotto la stella dei Radiohead e di mani pulite in una provincia dove qualcuno sostiene di essere stato, in una vita passata, una motosega.