Le Canzoni che Verrano: Intervista al Maestro Pellegrini

a cura di Paolo Cunico.

Francesco Pellegrini, da tutti ormai conosciuto come Maestro Pellegrini, è pronto a lanciarsi in una nuova avventura. Dopo i Criminal Jokers, la collaborazione con Andrea Appino e l’ingresso negli Zen Circus è pronto a pubblicare il suo primo album solista. Un lavoro durato due anni e presentato in anteprima con una serie di concerti in duo, con la collaborazione di suo padre al piano. Lo abbiamo incontrato alla fine di questo tour, chiamato Canzoni che non esistono, ma che vedranno la luce a breve.

Paolo – “Ciao Francesco, partiamo con una curiosità: la prima volta che ti ho visto sul palco eri con Andrea Appino, durante il tour del grande raccordo animale. Lì ti ho conosciuto come “Maestro Pellegrini” e mi sono sempre chiesto se sei effettivamente diplomato al conservatorio.”

Maestro Pellegrini – “In realtà sono ancora iscritto, sto studiando il fagotto da una decina d’anni ma mi manca ancora il diploma. Il nome d’arte nasce da un gioco fatto da Appino nel periodo di Grande Raccordo Animale perché in quel periodo, oltre a suonare il fagotto dal vivo con lui, studiavo molto lo strumento, anche nei camerini prima dei concerti. Per questo Andrea iniziò a prendermi un in giro chiamandomi maestro, un nomignolo d’arte del quale mi sono poi appropriato.

Sono iscritto alla classe di fagotto del maestro Paolo Carlini, un insegnante molto bravo, e ho sempre studiato questo strumento a livello accademico. La chitarra invece l’ho studiata solo da privatista, ma non molto; l’ho sempre suonata nei gruppi più che altro.”

P – “Non sarai ancora ufficialmente maestro a tutti gli effetti ma una certa maestria c’è, dal momento che suoni il fagotto, la chitarra e anche il pianoforte, giusto?”

M.P. – “Ho studiato il piano al conservatorio, come strumento complementare. La cosa curiosa è che il disco, che non hai ancora potuto sentire, l’ho composto tutto al pianoforte. Le canzoni mi sono venute tutte con il piano, lo strumento che conoscevo meno, che mi ha spinto ad un approccio diverso rispetto alla chitarra, facendomi tirare fuori delle idee più interessanti.

Sono cose che a volte capitano, non solo a me, è una cosa abbastanza comune quella di riuscire a tirare fuori idee nuove da strumenti che si conoscono meno. Poi forse c’è questo motivo inconscio dell’andare a cercare mio padre, che è pianista ed è maestro per davvero.”

P – “Quindi, la musica è sempre stata presente in famiglia, nella tua crescita.”

M.P. – “Si, infatti una buona parte della mia famiglia pratica musica, a livello professionale o amatoriale; è una cosa presente da generazioni, mia sorella ad esempio è diplomata in canto moderno in Olanda. È una sorta di maledizione che ci lega tutti, a parte il mio fratellino che si è iscritto a fisica: è l’unica persona normale della famiglia.”

© Romina Zago

P – “Sulla questione della maledizione, in senso buono si intende, ti capisco. Mio padre è musicista, perciò inevitabilmente i primi ascolti che ho fatto sono quelli che ho ricevuto da lui. Crescendo, quando trovavo qualcosa di nuovo da ascoltare, diffidavo dal proporglielo perché temevo che questo potesse non incontrare i suoi gusti. È capitato pure a te?”

M.P. – “Certo, questa cosa è successa anche a me. Poi, sai com’è, dall’adolescenza c’è stato un allontanamento anche abbastanza naturale con mio padre, per molti anni abbiamo praticato generi molto diversi e non abbiamo mai suonato insieme, fino a un po’ di tempo fa.

Questo tour per me è stata anche un’occasione per rivivermelo un po’ e condividere con lui questa grande passione che abbiamo e che è diventata la professione di entrambi. Per anni non ci siamo frequentati molto, abbiamo fatto strade diverse e finalmente ci stiamo divertendo assieme.”

P – “Difatti tuo padre ti ha accompagnato nel tour di anteprima del disco”

M.P. – “Esattamente, ho fatto questi due, tre mesi di anteprime dove ho suonato i miei brani un po’ come sono nati quindi, essendo nati al pianoforte, avevo bisogno di un pianista. Fra l’altro avevo bisogno di un pianista bravo perché quando vai a proporre i brani in duo sei abbastanza nudo. Mi serviva un musicista preparato che non solo sapesse eseguire le canzoni ma che avesse anche la capacità di aggiungere qualcosa, visto che abbiamo inserito anche delle code strumentali e delle improvvisazioni durante i concerti. Ho deciso di proporre quest’idea a mio padre, sia per condividere un po’ di tempo con lui, sia per l’esigenza pratica di avere un bravo pianista al mio fianco.

Le anteprime le abbiamo fatte in due però nel prossimo tour, dopo l’uscita del disco, ripartiremo con una band, visto che sarà un disco pieno di strumenti ed arrangiamenti diversi. Ci sono un sacco di strumenti, per cui l’idea è quella di ripartire con la formazione completa. Il progetto del duo però non verrà accantonato visto che ha avuto buoni riscontri, magari lo terremo per occasioni più intime.”

P – “Avere l’elasticità di riuscire a proporre le tue canzoni sia con una band in spazi grandi che in duo in ambienti più piccoli penso sia un bel vantaggio.”

M.P. – “Assolutamente, è una cosa bella non solo da un punto di vista pratico, ma anche dal punto di vista dell’ascolto. Sono due concerti diversi con arrangiamenti diversi, per cui due opportunità interessanti da portare avanti.”

© Romina Zago

P – “Parlando del disco, da quello che mi hai detto ci saranno anche strumenti meno convenzionali rispetto alla media. Ci saranno quindi strumenti più complessi da arrangiare ed amplificare, ti stai fai facendo aiutare nella produzione artistica?”

M.P. – “Il disco l’ho registrato tutto al 360 Music Factory di Livorno, lo studio di Andrea Pachetti, dove abbiamo registrato anche gli ultimi due dischi degli Zen. Come negli Zen la produzione artistica è stata curata da Andrea Appino con Andrea Pachetti al suo fianco, la stessa cosa sta accadendo adesso, io ed Andrea stiamo coproducendo il disco.

Le canzoni sono tutte mie, però le abbiamo arrangiate assieme, anche con la partecipazione di qualche musicista ospite. Ci saranno: Beppe Scardino, il baritono aggiunto dei Calibro 35; Simone Padovan, che è il percussionista di Motta, alla batteria; mio Padre ed altri ospiti, che non posso annunciare ora.”

P – “È bello sentire un’artista che coinvolge altri musicisti nella realizzazione del proprio disco, dando loro modo di portare idee e sonorità diverse, al posto di usare scorciatoie di vario tipo, creando quindi un disco interamente suonato.”

M.P. – “Assolutamente, sono quasi due anni che ci lavoro e mia madre sta iniziando a preoccuparsi, perché ci sto perdendo il carattere. Però sono contento, ti garantisco che è un lavoro immane ed è la prima volta che lo faccio così da protagonista. È un lavoro enorme sotto tutti i punti di vista, sia emotivo che tecnico, però ci tenevo che venisse come volevo io. Ci sono molti strumenti acustici come il violoncello e la tromba ma c’è anche l’elettronica, perché secondo me è un canale che se usato nel modo giusto va ad arricchire e non a togliere.”

© Gloria Imbrogno

P – “Hai detto che sono due anni che lavori a questo disco. Difatti ho pensato: caspita da quando ti visto la prima volta in tour con Appino, alla quale è seguita l’entrata negli Zen che sono stati estremamente attivi, non sei stato un attimo fermo. Dove cavolo l’hai trovato il tempo di fare un disco?”

M.P. – “Ho messo in stand-by il conservatorio, anche se adesso mi manca pochissimo un paio d’anni fa c’è stato un momento di crescita personale abbastanza importante dove mi sono traferito a Livorno. Sono andato a vivere in una casa di proprietà di Paolo Virzì, che me l’ha affittata per due anni e mezzo. È una casa molto particolare, si vede proprio che è una casa di un artista. Ha una vista incredibile, è un posto da sogno ma non perché sia una casa di lusso, è una casa molto particolare dove dentro c’è un pianoforte.

Lì ho scritto Francesco, la prima canzone del disco, e ho sentito che mi toccava delle corde, mi ha fatto rendere conto che in quel momento della mia vita ero molto in contatto con me stesso, riuscivo a guardarmi dentro.

È un disco che parla tanto di me e delle persone a cui tengo, con cui ho condiviso parte della mia vita, sia famigliari che musicisti. Anche se in realtà ho sempre scritto, senza mai pubblicare le mie cose, quando tornavo in quella casa mi sedevo al pianoforte e sentivo che quelle che scrivevo erano cose importanti, cose che dovevo dire. Quando sono arrivato a nove brani mi sono fermato per non superare le nove sinfonie di Beethoven, come si faceva nella classica nell’ottocento.”

P – “Si può dire che tu sei stato l’ispirazione principale di questo album.”

M.P. – “Direi proprio di si, per me quello degli ascolti di altri artisti come forma d’ispirazione è un discorso intricatissimo; un discorso che negli anni ho condiviso con Francesco Motta, visto che siamo molto simili sotto questo aspetto. I miei ascolti sono stati sempre molto vari: ascolto tanta musica strumentale, sia classica che il jazz di un certo tipo, ad esempio amo Stravinskij ed adoro Kamasi Washington. Se parliamo di cantautorato italiano lo conosco tutto, perché mia madre, nonostante non sia una musicista professionista, è molto appassionata. Pensa che è stata lei ad insegnarmi a suonare la chitarra da bambino e mi ha fatto crescere ascoltando i cantautori italiani.  Sarà forse per questo che ho sempre avuto l’impulso di scrivere le parole: è una vena che ho solo io in famiglia, nessun altro scrive canzoni.

Quindi sicuramente ci sono delle influenze inconsce, vedremo cosa si dirà quando uscirà il disco, ma non c’è un’ispirazione precisa. Per i riscontri che ho avuto fino ad ora mi dicono che c’è qualcosina di Brunori (sas, n.d.r.), sopratutto come atteggiamento armonico. Brunori è una persona che consce l’armonia e la musica, quindi quando scrivi le canzoni e hai anche una piccola competenza d’armonia arrivi a dei punti che posso capire siano anche comuni. Ovviamente per me Brunori è un numero uno assoluto, quindi non mi azzarderei mai ad accostarmi a lui, però fra i cantautori in attività è quello al quale sono stato avvicinato di più fino ad ora. Poi naturalmente quando sentirai il disco mi dirai se è così oppure no.”

© Alessia Antonelli

P – “Infatti questa cosa di parlare delle canzoni prima ancora di averle sentite è una bella sfida, non solo per te, ma anche per me che devo cercare di parlarne.”

M.P. – “È molto divertente, si creano delle situazioni curiose perché non si sa cosa aspettarsi. Sono molto contento dell’appoggio che mi ha dato il promoter perché, per quanto io abbia deciso di tenere un profilo bassissimo, c’è stata una bellissima risposta da parte dei vari locali. È stato un po’ come in Grand Budapest Hotel (film di Wes Anderson, n.d.r.) dove il concierge del hotel si affida alla rete degli altri concierge per scappare. Io pensavo di fare una decina di date, invece alla fine ne ho fatte molte di più.

Ufo mi ha detto:”vedi questa è una bella cosa perché alla fine potresti andare sul palco e scureggiare per un’ora, perché nessuno sa cosa vai a fare”.

E nonostante questo alone di mistero anche in termini di pubblico è andata molto bene, c’è stato pure un incremento di pubblico nelle ultime date. Ovviamente l’idea era quella di stupire, di fare anche a livello comunicativo qualcosa di diverso. È una cosa che mi è venuta in mente quest’estate parlando con Locusta. Ci siamo detti che valeva la pena provare, ed è andata benissimo, visto che abbiamo fatto 30 date.”

P – “Comunque grazie alla tua carriera, anche se non da solista, negli anni ti sei costruito l’immagine di un musicista serio, non un cazzaro che va a scureggiare sul palco, per citare Ufo. Quindi per un locale penso sia stata anche una scommessa calcolata.”

M.P. – “Si beh certo, però non era comunque una cosa scontata. Ho comunque rischiato perché, anche se un po’ di risposta me l’aspettavo, i risultati sono andati oltre le aspettative, sono molto contento.”

© Alessia Antonelli

P – “Tornando alla varietà di strumenti presenti nel disco: questa complessità rischia di essere un problema nell’esecuzione del live? Nel senso, avendo tanti strumenti e tanti musicisti è più complicato trovare i luoghi adatti dove suonare oppure state avendo un riscontro positivo anche sotto questo aspetto?”

M.P. – “È un discorso abbastanza complesso. Io ho scelto di fare un disco con una sonorità che sarà complicata da riprodurre in modo fedelissimo dal vivo. Ovviamente mi piacerebbe riuscirci, quindi quando uscirà il disco farò una formazione che mi permetterà di riprodurre le canzoni nel modo più fedele possibile.

Però non è neanche vero che ci tengo così tanto a riprodurre precisamente il lavoro fatto in studio dal vivo visto che voglio comunque continuare a lasciare spazio all’improvvisazione, una cosa non presente nel disco.

Il mio sogno sarebbe quello di fare qualche data con tutti gli elementi del disco: però si parla di fare date con dieci, undici musicisti sul palco, una cosa non fattibile per l’intero tour. Ci sarà poi una formazione più ristretta che mi permetterà di fare un bello spettacolo, che sarà comunque una cosa a sé rispetto al disco, sarà fedele ma non al 100%. Cioè se sei Paolo Conte lo puoi fare, nel mio caso subentrano altri fattori.”

P – “Per quanto un’esecuzione fedelissima dell’album dal vivo sia sicuramente una cosa validissima, credo però sia più interessante tornare a casa dal concerto con qualcosa di diverso, un qualcosa che va ad aggiungere una dimensione ulteriore al lavoro fatto in studio.”

M.P. – “Esatto, a me piace quando vado vedere un concerto e mi stupisco, preferisco che un concerto mi stupisca piuttosto che sia identico a qualcosa che ho già sentito. Ovviamente se mi stupisce nel bene, se mi stupisce nel male è un altro discorso.

Credo che il live debba essere diverso perché deve catturare l’attenzione in un modo diverso, riprodurre quello che hai fatto per essere ascoltato in una dimensione più intima sarebbe sbagliato, o comunque meno interessante. Bisogna tenere conto di essere su un palco, dove devi attirare l’attenzione in modo diverso.”

© Lorenzo Antei

P – “La tua musica è un po’ in controtendenza con quello che oggi è proposto mediamente a livello musicale italiano. Secondo te, oggi, è più difficile far apprezzare un’idea di musica come la tua rispetto ad altre meno ricche in termini compositivi o è solo una falsa percezione?”

M.P. – “Per l’esperienza che ho l’Italia è un paese molto particolare dal punto di vista musicale, perché c’è comunque un appoggio diverso da parte dello stato: ci sono paesi in Europa dove il musicista è comunque più tutelato. Questa cosa, unita alla creatività italiana, tende anche a stimolare tanto, quindi secondo me in Italia continua ad esserci un’ottima offerta musicale, sia di musica strumentale sia cantautorale, ma anche a livello mainstream. Cioè, per chiarirci, per me Tiziano Ferro è un cantante pazzesco, non è che disprezzo il pop. Ovviamente quando accendo la radio ci sono tante cose che non mi piacciono ed altre che mi piacciono, sono molto aperto.

Rispetto alla scena musicale più indie, per quello che può significare oggi la parola indie, c’è molta più offerta rispetto dieci anni fa, anche perché oggi i ragazzi si fanno il disco in camera da letto, cosa impensabile 10 anni fa. Anche questa ondata di rap e trap è figlia del fatto che oggi un ragazzo con una scheda audio ed un computer i può fare un disco in autonomia. Ovviamente non è un disco che suona come un disco composto da dieci musicisti professionisti, è un altro genere, un altro obiettivo, un altro campionato.

Chiaro che l’italiano medio ascolta la musica che capisce, quindi se un persona nella fase di scrittura approfondisce un po’ è consapevole che all’italiano medio non ci arriverà, ma magari neanche gli interessa. Oppure ci arriva più tardi o ci arriva senza neanche aspettarselo, comunque l’ascoltatore medio, rimane ad un livello di ascolto medio, non diventa un esperto.

Questi sono tutti discorsi che io non mi sono posto quando ho iniziato a scrivere, ho scritto perché avevo bisogno di scrivere. Poi quello che sarà sarà, ovviamente è un rischio enorme, però non potevo fare altrimenti perché io questo disco lo dovevo proprio scrivere.”

P – “Credo che comunque il messaggio di fondo, per qualsiasi artista secondo me, sia quello di essere se stessi e scrivere per se stessi, non scrivere per inseguire un pubblico, altrimenti non si va da nessuna parte.”

M.P. – “Esattamente, ad esempio Calcutta, secondo me, è uno che ha scritto per se stesso. Non lo conosco, non ci posso giurare, però secondo me quando è uscito lui era quella cosa li, quelle sono le sue canzoni e lui ha sempre scritto così. Semplicemente poi è arrivato al grande pubblico, ma lui era così. C’è una sincerità che io riconosco, poi magari non è così, ma io la riconosco. La sincerità è proprio il punto focale su cui mi posso schierare, è un elemento fondamentale.”

P – “Il 2019 è passato da poco, c’è stato qualche disco dello scorso hanno che ti abbia colpito in man ieri particolare?”

M.P. – “Un disco he mi ha colpito molte è quello di Andrea Laszlo de Simone (Immensità, n.d.r.), perché è un lavoro molto sincero e molto bello anche livello di arrangiamenti e musica, è un disco che merita di essere ascoltato.

Mi è piaciuto molto anche il singolo di Lucio Corsi, Cosa Faremo da Grandi, una canzone incredibile secondo me. Tra l’altro Lucio è un amico a cui tengo molto, è molto giovane ed è un musicista validissimo. Mi è piaciuto molto il brano, il testo e la produzione, si sente che c’è Bianconi come produttore, è veramente una canzone che merita tanto.

Mi sono piaciuti molto anche i singoli di Dente, quindi così nell’immediato ti direi questi tre nomi qua.”

Grazie Francesco per questa piacevole chiacchierata, non vediamo l’ora di sentire il nuovo disco. Ci vediamo sotto il palco!

Informazioni su Paolo Cunico 71 articoli
Nato sotto la stella dei Radiohead e di mani pulite in una provincia dove qualcuno sostiene di essere stato, in una vita passata, una motosega.