[CINEMATIC] #05 – Marzo ‘23 IO TU NOI, LUCIO

A cura di Mattia Salvadori

 

CINEMATIC #05 – Marzo ‘23
IO TU NOI, LUCIO

“L’Inghilterra ha avuto i Beatles, noi abbiamo avuto Lucio Battisti”

Verdone apre così, a gamba tesa.

Dopo aver visto questo documentario non potevo far finta di niente, non potevo non dire niente.
Ricordo poche cose della mia infanzia e la maggior parte di queste sono legate all’educazione musicale che ho ricevuto in casa. Mia mamma che prima di pulire casa mette su una cassetta di Battisti che risuona in tutte le stanze per tutto il pomeriggio perché “dai ormai l’ascolto tutta”. Ecco cosa viene in mente a me, e probabilmente ognuno di noi ha dei ricordi simili legati alla sua musica, o almeno in molti.
Quello che questo lavoro sottolinea particolarmente è il lato artistico tenuto più in penombra fino ad ora di questo artista. Sarà che fino ad ora, oltre ai lavori che ha lasciato, ne abbiamo sentito parlare solo per controversie legali, per elogiare il lavoro di sua maestà Mogol (più
che giustamente, per carità…) e poco altro. Sembrava quasi che qualcuno avesse infilato le parole giuste al momento giusto in bocca alla persona giusta. E invece no. Questo documentario elogia e valorizza in primis l’importanza del lavoro di squadra, quello dell’etichetta “Numero Uno”. Di una persona che si fidava del suo team, e di una squadra che lavorava e si metteva a disposizione esclusivamente per il bene del brano di turno.
Viene mostrata l’importanza e la cura dell’arrangiamento dei brani che lui stesso curava nei minimi particolari. Una ricerca che indubbiamente aveva influenze che derivano dal beat ma anche dal soul e l’r&b della Motown.
In fondo non ci scordiamo che è colui che ha portato un certo Wilson Pickett a Sanremo per cantare “Un’Avventura”. Una notevole rottura nella musica italiana per quegli anni.
Emerge un Battisti produttore e arrangiatore anche per terzi (vedi i Dik Dik). Queste skills lo portano ad esplorare con mano nuove soluzioni (vedi phaser sulle voci…), cosa che i suoi colleghi non potevano fare. Non era più solo il bel canto a dominare, ma la canzone. Costruire una bella canzone. Con maniacalità forse. Forse proprio quella che lo ha portato a non amare particolarmente i live, per quella forte componente di imprevedibilità appunto.
Chiaramente l’influenza su tutto ciò che è arrivato dopo è devastante e i contributi dei vari Colapesce, Dimartino, Paola Turci, Gianna Nannini e altri sono soltanto una minuscola parte.
Personalmente ho trovato molte cose che non conoscevo all’interno. Una figura rimasta (e ancora lo è un po’) quasi mistica, con un’aura particolare, da Re Mida, ma da non sbandierare troppo. Da vedere se lo conosci e soprattutto se non lo conosci abbastanza.

PS: non so per te, ma secondo me Verdone non è stato per niente esagerato.

 

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