Preparativi per la fine – C|O|D

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Ci sono cose che succedono ed altre che è impossibile che non, e questa è una di quelle, che non vedi l’ora che accadano finché non le hai davanti. E ho passato gli ultimi due, maledetti, anni ad immaginare come sarebbe stato, ridisegnarne i colori, brucianti e disordinati come nei quadri di Joy Garnett. Ho immaginato il buio e la luce che mi avrebbero accarezzato il viso, le gocce di birra e l’ansimare sincopato e compatto, le mani, gli occhi, le bocche. Ho pensato ai vestiti da indossare, alle parole da pronunciare, ai silenzi da lasciare liberi di risuonare. E adesso che sono qui, con lo sguardo che vaga nel vuoto, disperso in un pensiero ciclico e ossessivo che mi impedisce di andare oltre la porta di compensato pitturata di rosso carminio, ed ora? Ho abbandonato le strade più battute e sicure per arrivare fino a qui, ho vissuto sulle panchine del parco, passeggiato nei vicoli delle nebbie di novembre, aspettato albe e tramonti in attesa che i pensieri si districassero e le emozioni mi liberassero dal peso delle mie aspettative. Le mie notti non passano mai, i miei giorni sono micce bagnate, mine inesplose, pericolose solo per me. Ho cercato il mondo e le persone, le ho trovate piangere ed incurvarsi sotto i loro dolori, urlare di gioia e di disperazione, amarsi e odiarsi, lasciarsi e riprendersi. Ho cercato di prendere da loro tutto il meglio e il peggio e farlo mio, capire perché io sono così e non sono come loro. Ed ora? Ora, che sono arrivato qui, da solo, stancamente seduto su un divano liso e caldo, abbandonato all’attesa di un inevitabile salto nel vuoto, ora che ho iniziato a sudare, di un sudore denso e caldo, che lentamente si allarga sul mio volto tirato e sconnesso. Ed ora, dove sono, cosa accadrà dove sto andando? Rigiro tra le mani il telefonino spento, provo ad accenderlo senza riuscire a ricordare quale tasto premere per avviarlo, finche una inconsapevole combinazione di numeri e lettere lo accende senza che senta veramente il bisogno di usarlo. Non guardo lo schermo pallido e segnato da pixel mancanti, compongo numeri che non risponderanno, di persone che non ho mai voluto conoscere.
Poi cade, sfugge alle mie mani rigide e tremanti, si apre in due e ancora in due. Allora riprendo a guardare le pareti incrostate d’umido e pittura scadente, i poster ingialliti di David Bowie, le locandine scadute di gruppi forse mai esistiti.
Inizio a sentire il vociare della gente fuori di qui, posso sentirli come posso sentire il battito accelerato del mio cuore,  brusio che si alterna al silenzio. E poi passi, pochi e decisi. Guardo nuovamente le mie mani, prima il palmo e poi il dorso, le chiudo in un pugno, stringo forte, penso alle tue mani strette tra le mie, e alle tue e ancora alle tue. Poi bussano alla porta. Non rispondo, mi alzo, le gambe intorpidite e pesanti, copro i due metri dal divano alla porta e la apro, lentamente. Il ragazzo che vedo oltre la soglia, capelli improbabili e maglietta sgualcita di chissà che gruppo indie di un qualche sottoscala di Milano Marittima, mi sorride, inconsapevole di quello che vorrei rispondere alla domanda che sta per farmi. Non sono pronto, non lo sarò neanche tra cinque o dieci minuti, tra dieci giorni o dopo due bicchieri del peggior vino rosso della zona, di un rum da Hard Discount o di un cognac preso direttamente dalla riserva del re di Francia. Non sono pronto e non posso scappare, non posso nascondermi se non dietro questa inutile porta senza chiave. Non posso scappare. Accenno il meno convinto dei miei sorrisi, appoggio la mano allo stipite, come per spingermi via, per darmi una forza che non ho, ed inizio a camminare nello stretto corridoio dalle basse luci brunastre. Non c’è nessuno davanti a me se non il ragazzo dai capelli improbabili, che non apre bocca e non si volta per vedere se ci sono ancora. E mentre ci avviciniamo, il silenzio diventa vociare, la luce si schiarisce, il corridoio si apre in un spazio più grande, le mani smettono di tremare, il respiro si fa meno pesante. E quando il corridoio finisce, il ragazzo si scansa per farmi passare e si ferma dietro di me dandomi una pacca sulla spalla. L’orizzonte si apre, un orizzonte bianco e indefinito, fermo, inadeguato al frenetico ritmo del mio cuore. Eccomi qui, da solo, ancora da solo, con parole vecchie e rantoli da fumatore mancato ed il profumo di chiuso dei vestiti presi in prestito da mio padre. La mia mano strappa via le gocce di sudore dal viso, poi ridiscende lungo le corde della chitarra, le dita si stringono attorno al jack, lo sistemano poi si posano nuovamente sulle corde. Alzo gli occhi e incontro i loro, inizio a contare partendo dal cinque. Al sei capisco che è tardi per tornare indietro, il sette mi paralizza il cuore. Non posso farcela, non posso fermarmi, non posso scappare. Dove cazzo sei quando ho bisogno di te, del tuo sguardo rassicurante, del tuo sorriso di cellophane, della tua bocca da baciare. Poi arriva l’otto, un colpo secco parte alle mie spalle, il mio respiro si spezza in due. È la fine, esattamente come non avrei voluto che fosse e come non ho mai creduto potesse. Semplice ed inevitabile. Non sono mai stato pronto a niente che avesse un senso, mi sono talmente tanto concentrato sull’imponderabile da non saper riconoscere più l’ovvio, ciò che deve, ciò che non si può evitare. Sono qui, adesso, con la mia voce chiusa, con questa voce che sento sempre e solo io, con questa musica che vuole uscire dalle mura della mia testa, con la rabbia e il bisogno di essere diverso da me, non un eroe ma nemmeno un perdente.

 

IL DISCO

“Preparativi per la fine” è il secondo e, per ora, ultimo disco dei C.O.D., un disco di ritardi e addii. Ma anche di partenze