A cura di Fiorella Todisco
Quella sera tornai stanca da lavoro, più provata del solito.
Mi ero beccata, per la terza volta nella stessa settimana, un multa per divieto di sosta e la telefonata serale di mia madre arrivò, puntuale, proprio mentre varcavo la soglia di casa.
Lanciai l’impermeabile sul tavolo insieme alle chiavi e mi gettai sul divano.
“Si mamma… no mamma… davvero… si ora mangio… va tutto bene… non ho niente sono solo stanca… ah, si sposa anche Carla?… bene… ok mamma… buonanotte, ti voglio bene anche io”.
Giusto il tempo di sfilarmi le scarpe che, con altrettanta puntualità, arrivò anche la chiamata di mio padre.
“Non ho ancora mangiato… si papà… no… no… ho fatto tutto tranquillo… no, non mi serve niente… va bene, notte pà”.
Era stata una di quelle giornate piovose,con un vento freddo e tagliente.
Napoli, in una tempesta di clacson, avvolta da un manto di fitta pioggia che si srotolava lungo le strade, trasmetteva un’inesorabile tristezza.
Mi affacciai alla finestra e vidi qualche ombrello spostarsi nel vicolo dove abitavo, nei pressi della statua di San Gaetano, immobile e fiero al centro della strada.
Lo fissai per qualche istante e parve muovermi, con la sua espressione erudita, un inesorabile tacito rimprovero.
Mi ricordò mio nonno quando, dopo aver scoperto che fossi mancina, comunicò ad un pranzo di famiglia enormi perplessità sul mio futuro.
All’epoca c’era stato papà a dirmi di non farci caso.
In quel momento, invece, eravamo solo io San Gaetano e mi sentii così inerme davanti al suo disappunto, che decisi di allontanarmi dalla finesra, rimandando le giustificazioni a momenti migliori.
Poi, mi trascinai in cucina sotto le note di una playlist di Plusma, preparai un’insalata e tornai a sedere sul divano, masticando foglie in maniera quasi compulsiva.
E, fissando il piede della piantana vicino al televisore, lasciai galleggiare qualche pensiero nella pozzanghera di luce che vi si era formata attorno.
Il mio corpo schiacciato contro il muro dal suo, le mani sulla parete coperte dalle sue, molto più grandi e calde.Fascicoli di udienze da studiare a terra, insieme ai nostri vestiti ed alle armi con cui ci proteggevamo, quotidianamente, nella nostra intrepida battaglia contro l’amore.
Fiato corto ed il suo profumo sul collo, tra i capelli, sulle labbra.
In molte notti abbiamo perso la nostra guerra di cui sopra, promettendoci, mentre ci riabbottonavamo le camicie, di non non ricadere in trappola, mai più.
Gli facevo credere di tenere a lui molto più di quanto fosse realmente, solo per distrarmi dall’amore folle che provavo per un altro.
Sarà stato per questo mio essere codarda che San Gaetano mi aveva guardata in quel modo, allora presi coraggio e tornai alla finestra, lasciando la scodella di insalata su un bracciolo del divano, in bilico tra la vita e la morte.
“San Gaeta’ ma tu che faresti? Te ne stai li, tutto impettito, a disseminare sdegno, senza fornire soluzioni. Sei o non sei un Santo? Fai un miracolo!”
Ma San Gaetano, non mi rispose, forse perché stava la finestra chiusa e non mi aveva sentito o forse perché, dall’alto della sua grandezza, aveva ritenuto che stessi chiedendo aiuto per una questione di troppa effimera rilevanza.
– Sono pazza – pensai, spegnendo tutte le luci del soggiorno.
Mi infilai nel letto, coprendomi la testa con il piumone e sperai di addormentarmi in fretta così da non pensare. Tuttavia, ad un tratto, mi assalì un ricordo – la ciotola sul divano – che mi costrinse a rialzarmi nuovamente per mettere a posto ciò che avevo dimenticato.
Costeggiai la finestra ancora una volta mentre prendevo la via della cucina e scorsi con la coda dell’occhio l’inesorabile statua oltre i vetri.
Poi mi rivolsi alla ciotola che avevo tra le mani, in cui qualche foglia di insalata galleggiava agonizzante nell’aceto balsamico e le guardai con lo stesso sguardo con cui mi aveva, poco prima, censurato San Gaetano.
Doveva proprio aver pensato che fossi senza speranza alcuna, così affogai nella mia inettitudine, esattamente come affogava l’insalata nell’aceto.
di +o- POP