A cura di Francesca Lotti
Tra i live che vale la pena di raccontare, ci sono quelli che ti rimangono impressi per la bravura dell’artista, quelli che ti colpiscono per lo show e quelli che ti scaldano perché canti tutti i pezzi a memoria insieme agli amici.
Poi c’è un manipolo di artisti che come salgono sul palco sono capaci di trasportarti direttamente in un altro universo, per poi riportarti sulla terra lasciandoti con un solo quesito: dove cazzo sono stato? È quello che è successo qualche sera fa al live di Masego e Kamasi Washington, due fuoriclasse del jazz contemporaneo. Molto diversi tra loro, entrambi capaci di incantare il pubblico del Circolo Magnolia di Milano in un giorno tranquillo di mezza estate.
Ad accogliere i primi arrivati troviamo sul palco Ainé, giovane talento romano classe 1991 che vanta collaborazioni con Ghemon, Gemello, Willie Peyote e Mecna. Ainé si muove a cavallo tra sonorità tra hip hop, pop e soul, cullandoci dolcemente durante l’attesa. Ben presto in platea iniziano a radunarsi gruppetti di persone decisamente eterogenei: c’è il pubblico maturo, quello colto e conoscitore del jazz, quello giovane più hip-hopparo, chi è venuto solo per Masego e chi per Kamasi Washington, o chi per semplice curiosità, stuzzicati dai video dei live visti in rete, come sento da un paio di ragazzi in prima fila.
Nel frattempo, puntualissimi, salgono sul palco tutti i membri della band: giusto il tempo di intonare le prime note ed ecco che Masego atterra come un alieno con i suoi occhialetti tondi psichedelici e un outfit super fresh, che quasi sembra pronto per scattare un editoriale per ID.
Di origini jamaicane e sudafricane ma trapiantato negli Stati Uniti, Masego è un giovanissimo polistrumentista dotato di voce e talento davvero notevoli. Lo stesso nome d’arte, che significa benedizione in lingua Tswana, è programmatico: Masego è una benedizione per la scena contemporanea e una ventata d’aria fresca che si porta dietro un sound totalmente nuovo, da lui stesso definito trap-house-jazz. Ma davvero c’è bisogno di definizioni quando si hanno davanti artisti come lui? La sua musica unisce influenze gospel, che sono quelle della sua infanzia, il groove del jazz, l’energia dell’hip hop, la schiettezza della trap. Il risultato è un caleidoscopio che muta non appena si cambia la prospettiva, e che ha già conquistato artisti come Kaytranada e French Kiwi Juice (FKJ).
Tornando al live, l’intro si riconosce subito, è quella di Tadow, il pezzo in collaborazione con FKJ che col suo flow lento e seducente di voce e sassofono scalda anima e corpo.
Magnetico, di una classe e un’energia fuori dal comune, Masego si muove sul palco come se ci fosse nato, portando in scena molti brani del suo ultimo lavoro – Lady Lady, omaggio alle figure femminili che hanno costellato la sua vita, reali ed immaginarie.
Queen Things sul palco si traduce in tre minuti di dialogo etereo tra la voce di Masego e quella dolcissima della corista illuminati da una luce blu magnetica, seguita da Wifeable e dal lancio di rose rosse sul pubblico (con quello femminile chiaramente in estasi).
Ed è qua che Masego ci regala forse il momento più magico del suo show, giocando felice come un bambino con la sua inseparabile loop station: per avere un’idea di quello di cui parliamo, date un’occhiata a quello che aveva fatto durante la sua performance per Genius Open Mic.
Durante il live intona più volte il ritornello di Minnie the Moocher (Cab Calloway in The Blues Brothers), mentre scherza con gli altri membri del gruppo. D’altra parte, quando alcuni mesi fa era stato interrogato da un’emittente francese su quello che il pubblico si dovesse aspettare dal suo tour, aveva risposto che sarebbe stato nient’altro che un “hanging out with friends”, e così è.
La stessa attitudine lo porta a scherzare spesso con un pubblico divertito e che sta al gioco. Quando si dice stupito di vedere così tante persone di età differenti, ecco che coglie l’occasione per intonare Old Age e omaggiare tutte le “sugar mamas”. Segue un altro omaggio, questa volta alla sua personalissima versione del jazz: “If you love jazz music make some noise!”, invita prima di intonare You Gon’ Learn Some Jazz Today.
Con Lavish Lullaby sembra voler abbandonare il palco, ma eccolo tornare per chiudere con le note dell’immancabile Navajo, altra hit di cui potete godervi una splendida versione registrata negli studios berlinesi di A Color Show.
Si rimane in fibrillazione dopo quest’ora energica, e per fortuna, perché quella che segue prima di Kamasi Washington è una lunga, lunghissima attesa. Come Masego, Kamasi è un sassofonista di grande talento, che ancora una volta sfugge ad ogni definizione. Pubblico e critica talvolta si sono divisi, tra chi considerava la sua musica una sorta di operazione opportunistica e chi invece vedeva in lui un indiscutibile innovatore del jazz contemporaneo. In ogni caso, il suo lavoro ha destato l’attenzione generale, tra cui quella di artisti del calibro di Kendrick Lamar e John Legend (per dirne un paio), con cui ha collaborato.
Tornando a noi e a quello che sta succedendo al Circolo Magnolia, dopo oltre mezz’ora di trepidazione, ecco Kamasi Washington che sale sul palco in tutta la sua grandezza. Questa volta l’intro è una scarica di note che ti cade addosso, una sorta di polvere magica che ti fa venir voglia di seguire il ritmo con ogni muscolo del corpo. Poi Kamasi saluta e presenta la sua band: ci sono Ryan Porter al trombone, Brandon Coleman alle tastiere, Miles Mosley al contrabbasso e i due batteristi Tony Austin e Ronald Bruner Jr ad occupare le due sceniche postazioni ai lati, infine queen Patrice Quinn alla voce, che si staglia sul palco come una sfinge. L’atmosfera tutt’intorno è di ammirazione e rispetto, orecchie tese e occhi che brillano verso il palco.
L’energia che si sprigiona ad ogni pezzo ti colpisce dritto in faccia: a tratti si ha quasi l’impressione di non capire cosa succeda sul palco, mentre i musicisti in perfetta sincronia eseguono i brani – tratti per la maggior parte dall’ultimo album, Heaven and Earth – come fossero un unico organismo alla cui voce si intreccia in modo complemetare il sassofono di Kamasi.
Poi sale sul palco suo padre, Rickey “Pops” Washington, che lo accompagnerà con flauto e clarinetto per il resto del concerto. È a lui, afferma Kamasi stesso visibilmente commosso, che deve tutto ciò che sa.
In questo viaggio che passa attraverso brani solenni fino a note funk ammiccanti, si lascia talvolta il posto ai singoli strumenti, come con lo splendido dialogo che si instaura verso la fine tra i due batteristi: una sorta di conversazione in codice, che “only drummers can understand”. Tutto lo show è, di fatto, una celebrazione di quell’armonia unica che nasce dalla diversità: diversità tra quello che Kamasi porta in scena e l’idea canonica di jazz, tra i singoli brani, nei solismi dei musicisti e perfino nel pubblico variegato. D’altra parte, “difference is not somehing to be tolerated, its something to be celebrated” afferma lui stesso prima di eseguire alcuni brani tratti da The Harmony of Difference.
Kamasi Washington e la sua band ti ipnotizzano, ti aprono mente e orecchie durante oltre due ore di live, e poi ti lasciano lì, un po’ stordito e un po’ estatico. E così, fino alla fine si rimane sospesi e incantati, tanto che ci vuole un attimo prima che parta l’ultimo scroscio di applausi, ancora più forte dei precedenti, quasi grato.
Come un genio della lampada, Kamasi ti fa salire sul suo tappeto magico e ti porta in viaggio con lui: se la partenza è stata il Circolo Magnolia, l’atterraggio non è dato saperlo, forse qualche mondo parallelo.
Nel complesso, un live da 10 + tanto per Masego quanto per Kamasi Washington, di quelli che ti fanno alzare l’asticella delle aspettative la prossima volta che vai ad un concerto.