BEIRUT, LOW, JOHNNY MARR e DEERHUNTER si aggiungono alla line up della quinta edizione di TODAYS Festival

TORINO

23-24-25 AGOSTO 2019

DOPO GLI ANNUNCI DEGLI UNICI CONCERTI ITALIANI DI HOZIER, JARVIS COCKER (ex PULP), THE CINEMATIC ORCHESTRA, NILS FRAHM e SPIRITUALIZED A TORINO DAL 23 AL 25 AGOSTO 2019, TODAYS FESTIVAL NON SI ARRESTA ED ANNUNCIA IN ESCLUSIVA ALTRE QUATTRO NUOVE BAND INTERNAZIONALI TRA LE PIU AMATE DEL ROCK INDIPENDENTE MONDIALE.
SI AGGIUNGONO ALLA LINE UP DELLA QUINTA EDIZIONE DI TODAYS FESTIVAL:
BEIRUT

LOW

JOHNNY MARR

DEERHUNTER

biglietto singola giornata con accesso a sPAZIO211: 30 eu + d.p.
biglietto singola giornata con accesso a INCET: 15 eu + dp

abbonamento singola giornata (24 o 25/8 con accesso a tutti i concerti): 40 eu + d.p.

abbonamento tre giorni (23, 24 e 25/8 con accesso a tutti i concerti): 100 eu + d.p.

TODAYS.
Il festival

sPAZIO211 mainstage:
VENERDI 23 AGOSTO: BEIRUT – SPIRITUALIZED – DEERHUNTER – more t.b.a.

SABATO 24 AGOSTO: HOZIER – LOW – more t.b.a.
DOMENICA 25 AGOSTO: JARVIS COCKER – JOHNNY MARR – more t.b.a.

Ex INCET mainstage:
VENERDI 23 AGOSTO: t.b.a.
SABATO 24 AGOSTO: THE CINEMATIC ORCHESTRA – more t.b.a.

DOMENICA 25 AGOSTO: NILS FRAHM – more t.b.a.

 

BEIRUT
+ SPIRITUALIZED
+ DEERHUNTER

altri artisti da annunciare

VENERDI 23 AGOSTO 2019

sPAZIO211

INGRESSO: EURO 30 + d.p.

A distanza di tre anni dall’ultimo “No No No”, Zach Condon è pronto a tornare live con il progetto Beirut per presentare il nuovo album Gallipoli, scritto e registrato tra New YorkBerlino e Lecce, ed uscito per 4AD il 1 febbraio 2019.

Globetrotter dell’universo indie d’oltreoceano, Zach Condon aka Beirut è partito da un peregrinare per le strade polverose della vecchia Europa per approdare a una nuova formula di chamber-folk-pop.

Tutto è cominciato ad Albuquerque, nel New Mexico. Non stiamo parlando della serie tv “Breaking Bad”, ma della storia di Zach Condon, classe 1986, enfant-prodige della musica folk divenuto, grazie al progetto Beirut, uno dei nomi di punta della scena indie americana. Adolescente talentuoso e ribelle, Condon ha con la scuola un rapporto conflittuale che lo porterà ad abbandonare e riprendere diverse volte il college. Nonostante i voti siano mediamente alti, è la musica ad occupare giorno e notte i suoi pensieri, e in particolare grande è il fascino che gli strumenti a fiato esercitano su di lui “La dolcezza malinconica dei fiati mi commuove. Dalle bande da funerale siciliane fino a quelle da matrimonio balcaniche, l’espressività emotiva dei fiati è per me meravigliosa, tanto quanto la voce umana.”

Durante l’adolescenza, Condon si trasferisce prima a Newport News (in Virginia), quindi in pianta stabile a Santa Fe. Continua, però, a sognare di viaggiare per il mondo, spinto dall’amore per la world music e per le sonorità etniche. L’impatto che il Vecchio Continente esercita sulla personalità musicale di Condon è enorme; il nostro rimane folgorato dal suono delle brass band europee, in particolare di quelle balcaniche.
È la primavera del 2006, quando per i principali blog musicali americani comincia a circolare “Postcards From Italy”, la prima canzone di Condon sotto lo pseudonimo di Beirut. Il brano, romantica folk-song che è anche un tributo a un’Italia del tutto immaginaria (Condon visiterà il nostro paese per la prima volta solo nel 2011), inizia con un semplice giro di ukulele per poi dischiudersi in un’esplosione di trombe spagnoleggianti, che guidano il brano verso il melodico e dolce finale. Il pittoresco connubio di gioia e trattenuta malinconia è sufficiente per fare breccia nel cuore di decine di migliaia di ascoltatori. “Postcards From Italy” è un piccolo gioiello, semplice e genuino, e inevitabilmente porta Beirut ad essere la scoperta musicale dell’anno.

E così, ottenuto il consenso sia del pubblico che della stampa specializzata, a maggio del 2006 esce per l’etichetta BaDaBing Gulag Orkestar, l’eclettico album d’esordio di Beirut, un lavoro che attinge tanto alla world music, quanto alla tradizione cantautorale americana. Forte del successo riscosso con l’album d’esordio, a gennaio del 2007 Condon entra a far parte del roster della 4AD, storica etichetta indie britannica. A fine mese, è quindi il turno di Lon Gisland, da qui in avanti, avrà senso parlare di Beirut non più come di un progetto solista, ma come una band a tutti gli effetti, oltre ovviamente all’inossidabile Zach Condon, leader assoluto nonché polistrumentista.
Il 9 ottobre 2007, con la pubblicazione dell’attesissimo secondo album, The Flying Club Cup, Zach ha un collaboratore davvero d’eccezione: si tratta del visionario Owen Pallett, già noto per il progetto baroque-pop Final Fantasy e reclutato qui come produttore artistico. Per un nuovo album si deve attendere fino al 2011, a ben quattro anni di distanza dal precedente, quando sotto la Pompeii Records (label fondata da Condon) viene pubblicato The Rip Tide ed il successivo No No No nel 2015, il primo album di Condon a suonare più synth-pop che folk.

Dal 2017, Zach Condon vive in pianta stabile a Berlino. Il nuovo album dei Beirut, composto tra la capitale tedesca e la Puglia segna un gradito ritorno alle sonorità dell’inizio con il suo passo marciante da banda di paese e la sua melodia di fiati dolce e nostalgica.

Condon ha così definito il processo di composizione e scrittura: “Gallipoli iniziò, nella mia testa, quando finalmente feci spedire il mio vecchio organo Farfisa dalla casa dei miei genitori a Santa Fe, NM a New York” esordisce Condon ” Mi impossessai dell’organo durante il mio primo lavoro al Center For Contemporary Arts di Santa Fe; trascorsi i successivi tre anni scrivendo il maggior numero di canzoni che potevo tirarne fuori”.
Condon va avanti raccontando il processo di scrittura: “In questo periodo la mia vita privata cambiò improvvisamente e mi ritrovai a viaggiare avanti e indietro tra New York e Berlino per lunghi periodi di tempo”.
Descrive le session di registrazione come “una tempesta di giorni passati chiusi in studio dalle 12 alle 16 ore, facendo gite sulla costa e seguendo una dieta solida a base di pizza, pasta e peperoncini” e poi racconta le fonti d’ispirazione del nuovo lavoro ed in particolare del brano Gallipoli. Ero molto soddisfatto del risultato. “Mi sembrava un mix catartico di tutti i vecchi e nuovi album e mi sembrava di essere tornato alla vecchia gioia della musica come esperienza viscerale”.
“Una sera ci trovammo per caso nella cittadina medievale di Gallipoli e seguimmo una band di ottoni in processione dietro a preti che portavano la statua del santo patrono tra le strette vie del paese, seguiti da quella che sembrava l’intera città. Il giorno seguente scrissi in una sola sessione, facendo pausa solo per mangiare, il brano che sarebbe diventato “Gallipoli”.
L’uscita del disco è stata anticipata dalla pubblicazione del video di “Landslide”, girato in Kazakistan dal regista Eoin Glaister e che gode della partecipazione di Ian Beattie (Game of Thrones).

LOW

– data unica italiana –

+ HOZIER
+ altri artisti da annunciare
SABATO 24 AGOSTO 2019
sPAZIO211
INGRESSO: EURO 30 + d.p.

Gli alfieri dello slowcore di Duluth nel loro unico concerto estivo nel nostro paese.

La band ha da poco pubblicato il nuovo album in studio, intitolato “Double Negative”, prodotto da BJ Burtone registrato presso lo studio April Base di Justin Vernon (Bon Iver) a Eau Claire, nel Wisconsin. Burton in precedenza ha co prodotto “Ones e Sixes”, ultimo disco dei Low uscito nel 2015.Atmosfere malinconiche, unite a melodie soavi e a momenti di stasi trascendente: è la ricetta dei Low, il trio del Minnesota che ha elevato lo slowcore a meditazione spirituale.

La musica dei Low non ha eguali nella storia del rock. Inizialmente emuli di Codeine, Cowboy Junkies e dello slo-core in genere, sono successivamente pervenuti a uno stile personale, minimale nei suoni e trascendentale nell’umore. Nella musica dei Low, voci, suoni, testi e concetti espressi vanno a plasmare un’icona sonora compatta, che trova nella natura il suo referente ma nel superamento della stessa il suo fine. Le atmosfere create sono oniriche, appartengono a mondi lontani, possibili unicamente nei sogni.

Solo Tim Buckley in passato, Roy Montgomery e i Lycia negli anni Novanta sono riusciti a comporre una musica così intensamente metafisica. La poesia sonora dei Low fluisce languidamente, cattura anima e corpo, affascina e rende catatonici, ipnotizza come solo Jim Morrison sapeva fare.

Il progetto Low si materializza nel 1994 a Duluth nel Minnesota, e ha come protagonisti Alan Sparhawk(voce e chitarra), la moglie Mimi Parker (batteria e voce) e il bassista John Nichols (sostituito da Zack Sally a partite da Long Division).
L’album d’esordio I Could Live In Hope è un lavoro strabiliante, insolitamente maturo per un gruppo alla prima uscita. Il suono è scarno ma intenso; è davvero incredibile come i Low riescano a costruire paesaggi sonori e atmosfere da sogno con la strumentazione classica di una rock band (chitarra, basso, batteria), impartendo così una severa lezione a quella moltitudine di musicisti elettronici che negli anni 90 si vantano di produrre musica ambientale; ciò che ne risulta è una sorta di sussurro etereo che ha la stessa qualità evocativa del vagito celestiale di Elizabeth Fraser.
L’arte del trio di Duluth punta a produrre atmosfere; ciò che fa la differenza è che i nostri sanno anche scrivere canzoni. I Low sono destinati a durare, e con il loro secondo album Long Division, i Low assurgono allo status di classici del rock.
Con The Curtain Hits The Cast inizia la fase di transizione, che porterà il gruppo ad esprimersi in un linguaggio più pop. Il sound è più corposo, ispessito dalla produzione di Steve Fisk, e i Low hanno completamente rielaborato le proprie influenze: gli echi di Codeine, Nick Drake e Buckley senior sono stati codificati in uno stile unico, riconoscibile, ormai indipendente dai suddetti modelli.
Songs For A Dead Pilot è un disco anomalo in cui i Low producono musica ancora più rarefatta, mentre InThe Fishtank è un’interessante collaborazione con i Dirty Three e il violino di Warren Ellis dona più dinamismo al sound dei Low.
Secret Name prosegue il discorso iniziato a partire da The Curtain Hits The Cast. Il sound è ancora più corposo per effetto dell’aggiunta di nuovi strumenti come il piano e il violoncello. L”arte dei Low diventa più terrena e meno spirituale: più Neil Young che Tim Buckley.
Things We Lost In The Fire è il successivo capolavoro del trio di Duluth, dove finalmente si fondono tutti gli elementi che hanno caratterizzato, nei diversi periodi, l’universo sonoro dei Low: lentezza, atmosfere celestiali, melodie soavi, intensità del cantato si compiono in strutture armoniche decisamente pop. I Low si riscoprono compositori di canzoni come si facevano una volta (e come si continuano tuttora a fare), con tanto di ritornelli orecchiabili.

Nel 2002 Trust fa di nuovo centro.
I Low potrebbero rifare se stessi all’infinito senza annoiare mai.
Il sound del trio del Minnesota è il suono dell’uomo che ascende a puro spirito, del fluttuare della piuma mossa dal vento, dell’aurora e del tramonto al tempo stesso: è il

suono soul dell’infinito. I Low hanno marchiato a fuoco la storia del rock.
Drums And Guns (2007) racconta storie assassine che mescolano candore e amarezza, puntando, come sempre, al firmamento.
C’mon esce a ben quattro anni di distanza da Drums And Guns, al culmine di un periodo durante il quale Alan Sparhawk si dedica al parallelo progetto in aria di vintage-rock Retribution Gospel Choir.
Registrati nei Sacred Heart Studio di Duluth (siti in una chiesa sconsacrata), dove vide la luce anche Trust, i dieci brani di C’mon risultano canzoni sospese in una dimensione temporale aliena, nella quale tornano a incontrarsi brumose carezze al rallentatore e accorate elegie modellate su scarnificazioni degli stilemi del rock e sulla raffinatezza di melodie tanto eteree quanto compiute.
Abbandonata la pur felice strada dell’autoproduzione, per The Invisible Way (2013) i Low hanno deciso di chiamare in cabina di regia tale Jeff Tweedy dei Wilco, il quale ha risposto ospitando i giganti dello slowcore nel contesto ideale (il Wilco Loft di Chicago) in cui scrivere l’ennesimo capitolo memorabile della propria storia.
Con Ones And Sixes (2015) l’elettronica rientra nel mondo dei Low, ma questa volta dalla porta d’ingresso, senza intaccare il costante fascino spartano e naif della band. Gelido, aspro, rigido a tratti desolato il nuovo album contiene più di un elemento per restare in piedi al di là della fama e della storia del gruppo.
L’elettronica è invece usata in modo diametralmente opposto sul nuovo album Double Negative (2018), dove i suoni sintetici non servono ad arricchire, ma a distruggere. Confermato BJ Burton in cabina di regia, gli viene lasciata carta bianca e un’unica, sadomasochistica istruzione: picchiare per far male.
E’ pertanto un diverso immaginario elettronico, cupo e nichilista, a riempire l’orizzonte: dubstep, glitch, post-club music, industrial, qualche goccia di trip hop giusto per diluire un composto così micidiale da rischiare la detonazione prima del dovuto. La sensazione è straniante: è come se uno psicopatico in preda ad una crisi fuori controllo si fosse messo a remixare qualche loro vecchio album, magari servendosi di una strumentazione in avaria. E’ l’altro lato dello scintillante sogno accelerazionista, una visione catastrofica che esaspera la tecnologia per farla collassare su se stessa, un grido così lacerante che si soffoca da solo. Il “doppio negativo” del titolo va quindi interpretato non solo come orrore da fronteggiare qui e ora, ma anche nel senso di negativo fotografico, ribaltamento dimensionale che inverte i colori e svela il rimosso. Quello dei Low è un sacrificio quasi cristologico, un attirare su di sé il Male per trascinarlo nella propria scomparsa, accettare di farsi divorare per liberare il mondo da una sofferenza insostenibile e immotivata. Nessuna facile tentazione millenarista, tuttavia: solo tanto, impotente, umanissimo dolore. In una scena di “You May Need A Murderer”, imperdibile documentario del 2007 in cui i coniugi Sparhawk mettono a nudo i propri spettri, Alan dice una cosa del tipo “come dovrei comportarmi se il mio Dio mi chiedesse di fare del male?”. Nell’impossibilità di sciogliere un quesito così atroce, Double Negative tenta quantomeno di sfogarne il tormento in una catartica tabula rasa, un potlatch in cui scaraventare ciò che si ha di più caro solo per vederlo bruciare.
Lo slowcore degli esordi, il folk-rock della maturazione e l’avant-pop dell’età adulta sono solo sbiaditi ricordi nella mente di un suicida spirante, e Double Negative è precisamente questo: un harakiri artistico, il loro disco più estremo e una delle opere più sconvolgenti degli ultimi anni.

JOHNNY MARR

+ JARVIS COCKER introducing JARV IS…

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DOMENICA 25 AGOSTO 2019

sPAZIO211

INGRESSO: EURO 30 + d.p.

Il co-fondatore e ex chitarrista dei The SmithsJOHNNY MARR, a quattro anni di distanza dal suo ultimo lavoro solista, “Playland” del 2014, annuncia il suo ritorno in Italia per una unica data estiva a TODAYS 2019 con il nuovo album in studio, “Call The Comet”, pubblicato a giugno 2018 e anticipato dai singoli “The Tracers” e “Hi Hello”.

Uno dei chitarristi più celebri della storia della musica contemporanea, Johnny Marr ha da poco pubblicato il suo terzo album solista “Call The Comet”.
Registrato con la sua band ai Crazy Face Studios di Manchester, “Call The Comet” è il suo terzo disco solista e segue i precedenti album acclamati dalla critica “The Messenger” (2013) e “Playland” (2014).
A proposito del nuovo lavoro, Marr aveva dichiarato a NME: «È più emozionale rispetto agli altri album, i testi sono più profondi. Riguarda soprattutto le cose che mi circondano, ma ci sono anche un paio di canzoni che hanno a che fare con me».
Marr è conosciuto per il suo lavoro a fianco di Morrissey come forza creativa dietro The Smiths: con l’uscita di quattro album classici e molto influenti registrati in studio e il live set Rank, ognuno dei quali ha raggiuntola posizione # 1 o # 2 della classifica degli album più venduti. Dopo aver lasciato gli Smiths nel 1987, Marr ha continuato la sua carriera come membro ufficiale o chitarrista in tour per diversi gruppi acclamati tra cui The TheElectronicModest Mouse e The Cribs.
Marr è stato membro dei Modest Mouse quando il loro album “We Were Dead Before The Ship Even Sank” debuttò alla prima posizione della classifica Billboard, e membro dei The Cribs quando raggiunsero la top 10 con il loro album del 2009 “Ignore The Ignorant”. Marr ha anche preso parte alle registrazioni deiPet Shop BoysJohn FruscianteTalking Heads e Beck.
Innumerevoli i musicisti hanno citato Marr come significativa ispirazione musicale, in particolare per Noel Gallagher e Radiohead. Colpito da un primo demo degli Oasis, Marr è stato come un mentore per l’allora sconosciuto Gallagher, aiutando la band a trovare un manager ed ha anche passato una delle sue chitarre per favorire l’ispirazione del suo talentuoso giovane amico. Anni dopo – con gli Oasis ormai affermati come la più grande band del paese – Marr prese parte alle registrazioni dell’album “Heathen Chemistry”.

L’influenza di Marr ha continuato ad essere riconosciuta in questi ultimi anni.
Il Trinity College di Dublino, lo ha nominato come Patrono Onorario della University Philosophical Society al fianco di mecenati del passato come Oscar WildeSamuel Beckett e Bram Stoker. Si è guadagnato anche il Lifetime Achievement Award di Q, il Mojo’s Classic Songwriter Award e il Premio Inspiration al Ivor Novellos (presentati, rispettivamente, da Ed O’Brien dei Radiohead, Bernard Butler dei Suede e da Alex

Kapranos frontman dei Franz Ferdinand).
Gli ultimi anni hanno visto Marr diversificare il suo lavoro in altre aree musicali. Ha contribuito notevolmente alla nomination all’Oscar di Hans Zimmer per il film “Inception”di Christopher Nolan, mentre la sua chitarraFender Jaguar firmata Johnny Marr è stata nominato per la chitarra dell’anno ai 2012 MIA Awards.

DEERHUNTER+ BEIRUT
+ SPIRITUALIZED

+ altri artisti da annunciare

VENERDI 23 AGOSTO 2019

sPAZIO211

INGRESSO: EURO 30 + d.p

La band di sognatori nostalgici fondata da Bradford Cox rappresenta uno dei nomi di punta della ricca proposta artistica dell’edizione 2019 del TOdays Festival. Definirli psichedelici risulterebbe troppo vago. Per non parlare della macro etichetta “indie rock”. Shoegaze? Si ma non sempre, o non in modo così caratterizzante. Pop rock? Si, ma non ci siamo ancora. Ambient punk? Così è come si sono spesso auto definiti loro stessi, facendo a loro non poca fatica ad inquadrare il loro stile. Se proprio dobbiamo delineare i tratti distintivi di una delle band americane meno scontate degli ultimi vent’anni, dovremmo certamente rintracciarli nella matrice malinconica e introversa dei loro contenuti. La loro musica fluttua in ammollo nel liquido amniotico dei ricordi, nell’esplorazione della solitudine esistenziale e nell’evocazione di un’ampia stratificazione di emozioni. Basta pensare anche solo alla personalità del fondatore Bradforx Cox, con la sua vita fatta di lacune affettive fin troppo precoci e patologie che si manifestano non solo con la loro forza debilitante ma anche trasformando l’aspetto di chi ne soffre, come la Sindrome di Marfan di cui Bradford è affetto e che lo ha reso “un secco spilungone”, facendolo rinchiudere sempre più in sé stesso e nella sua presunta diversità dal resto del mondo fin dalla tenera età.
I Deerhunter nascono ad Atlanta nel 2001 da un’idea del frontman Bradford Cox e del batterista/tastieristaMoses Archuleta. Completano il quintetto Lockett Pundt alle chitarre/tastiere (noto anche per il side project Lotus Plaza), Frankie Broyles alle chitarre e Josh McKay, basso e organo. Nonostante la loro relativamente breve carriera i Deerhunter si sono imposti come una delle band di culto dell’ultimo decennio tra indie rock, noise pop, garage-rock e psichedelia creando capolavori come Cryptograms (2007),Microcastle (2008) e Halcyon Digest (2010)Monomania (2013) e Fading Frontier (2015).
Why han’t everything already disappeared? Perché non è ancora tutto scomparso?

Questa è la domanda che i Deerhunter scelgono come titolo del loro ottavo album, uscito su 4AD il 18 gennaio 2019 e prodotto insieme a Cate Le BonBen H. Allen III e Ben Ette, aperto proprio dal clavicembalo suonato da Cate in “Death In Midsummer”, istantanee della rivoluzione d’ottobre, racconti di morte, un crescendo emozionale, atmosfere che da barocche si trasformano gradualmente in elettriche, squarci di sax si fanno largo in un’andatura alt-folk-pop e testi che traggono spunto dal barbaro omicidio della parlamentare europeista laburista britannica Helen Joanne Cox per opera del militante neonazista Thomas Mair. Scenari di vittime e sangue, dal passato e dal presente. Poi Berlino, tardi anni Settanta, il Bowie pre-wave sfrutta le illuminazioni di Brian Eno e architetta “Low”, “Greenpoint Gothic” è la “Speed Of Life” dei Deerhunter, giusto un paio di minuti che ci teletrasportano in uno spazio atemporale.
Why Hasn’t Everything Already Disappeared? è il sigillo di un lavoro che prosegue il percorso dei Deerhunter, concentrati sull’elaborazione di un formato canzone, restando. ntatta la capacità di centrifugare tante influenze e costruendo un prodotto che – con spiccata personalità– si sgancia dai tanti riferimenti per brillare di luce propria. È una lunga domanda sul presente e sulla graduale scomparsa di senso generale della cultura, ma anche della natura, della logica, ma anche dell’irrazionalità emotiva. In un’epoca storica in cui le soglie di attenzione sono ai minimi storici e gli algoritmi stanno per prendere il posto delle attività intellettuali prettamente umane come arte e musica, perchè se tutto è già svanito, non è ancora tutto scomparso? Con questo disco, a circa vent’anni di distanza dal primissimo giorno in sala prove, sono ormai lontani dagli echi ruvidi e punk che caratterizzavano i loro primi (indimenticabili) lavori, prediligendo l’altra forte connotazione della loro musica, quella più evocativa e atmosferica, consegnandoci un lavoro sempre e comunque all’altezza delle aspettative. Fin dalla loro formazione nel 2001, i Deerhunter hanno fatto veramente poca fatica ad imporsi come una delle band di culto degli ultimi vent’anni, riscuotendo successo su un pubblico sempre più trasversale, che li accoglie sempre con calore ed euforia ogni volta che ha occasione di vederli dal vivo. I Deerhunter hanno preso parte più volte ai principali festival internazionali del pianeta dal Primavera Sound al Coachella, e suonato da headliner in rassegne quali l’ ATP del 2013 dove hanno realizzato per intero i loro tre capolavori e l’Austin Psych Fest, ed ora avremo finalmente l’occasione per poterli vedere in Italia, con i loro nuovi e bellissimi brani.

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